Renzi, cosa c’è dietro la “logica dello staff”?

Foto Repubblica.it

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Senza dubbio le reazioni più forti, all’indomani della presentazione delle liste del Pd per il prossimo Parlamento, le hanno destate le esclusioni eccellenti di alcuni esponenti della “quota Renzi”. Quelli che dovevano essere i diciassette nomi decisi dal sindaco di Firenze, ma che sembrano non essere più di quindici, sono stati concordati con Bersani, stando alle parole di Letta, nel corso del famoso pranzo romano della scorsa settimana. E a giudicare dall’esito, è prevalsa nel “rottamatore” la logica dello staff.

Come già illustrato nell’articolo appena linkato, Renzi ha preferito mandare in Parlamento i membri più prettamente organizzativi del suo entourage, Bonafè, Boschi e Lotti, sacrificando tra questi Reggi e lasciando fuori una componente “tecnica” come il costituzionalista Francesco Clementi. Una scelta non solo in controtendenza con la campagna per la meritocrazia che il sindaco di Firenze ha intrapreso durante le primarie, ma anche rischiosa. Rischiosa perché mette a dura prova il “sentiment” che nei suoi confronti hanno sia i collaboratori più stretti sia i suoi sostenitori. In entrambe queste categorie, infatti, oltre a chi naturalmente se la prende con Bersani, ci sono anche quelli che attribuiscono almeno parte della responsabilità a Matteo Renzi. Lo ha fatto Gori dopo le primarie parlamentari, lo ha fatto Reggi in queste ore e lo hanno fatto anche altri più o meno all’ombra del rottamatore.

Ma perché Matteo Renzi si lascia andare a comportamenti “da vecchio democristiano”, per dirla con Antonio Polito (su Twitter), o comunque così rischiosi? Una chiave di lettura potrebbe essere la stessa con cui in ambienti vicini al sindaco di Firenze si motivava il suo silenzio post-primarie: non vuole farsi coinvolgere più di tanto in quella che prevede essere la corsa verso un revival del Prodi 2006. Adattandola al caso specifico delle liste: risparmia i pezzi più pregiati delle sue truppe (senza nulla voler togliere a Bonafè, Boschi e Lotti) per tempi, durate e battaglie più proficui. Anche perché, ricordiamolo, Renzi è quello del “non più di tre legislature”, dei “politici a tempo determinato” ; e la prossima, anche se non durasse cinque anni, varrebbe comunque come prima tacca.

Un’obiezione a questa interpretazione potrebbe essere che tuttavia Renzi si è impegnato a fare campagna elettorale per Bersani, quindi si è fatto coinvolgere e la faccia ce la metterà. Certo, ma al di là del fatto che questa è stata una scelta coerente con quanto ha sempre affermato durante le primarie, può essere utile rileggere quella che è stata la sua prima uscita nelle vesti di “bersaniano”. Su Repubblica, Renzi ha lanciato segnali chiari, innanzitutto parlando della fase che sta vivendo adesso, quella “della dignità, della lealtà e della correttezza nella sconfitta”: “io scelgo un’altra via – ha detto – che è anche l’unica per riprovare in futuro a lanciare una nuova sfida”. E poi ha precisato: “prima o poi ci riproveremo. Ci saranno altre stagioni. Non disperderemo lo straordinario patrimonio delle primarie”. Ma non solo: “se avessimo vinto noi sarebbe stata un’Italia diversa e un Pd diverso. Non mi consolo e non mi accontento”.

Dunque, Matteo Renzi ha introdotto questo elemento di novità: ha perso, ma rimane nella squadra e gioca per lei “anche se non la allena”. In questo modo ha dimostrato ai suoi avversari interni e all’elettorato avverso di centrosinistra qual è la sua credibilità. “La credibilità viene prima di tutto”, ha detto. E può essere il primo passo per guadagnarsi le simpatie e il supporto che ancora gli manca per essere maggioranza nel partito. Aiutare la sua squadra oggi per allenarla domani, magari insieme a chi oggi sembra aver ricevuto da lui un trattamento ingrato.

(Articolo pubblicato su Tempi)

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