Centotre anni fa moriva Messina

Il 28 dicembre 1908, alle 5.21 di notte, un terremoto del 12° grado della scala Mercalli (7.1 della Richter) si scatena nello Stretto di Messina. Le illuminazioni saltano, le vie di comunicazione sono inagibili. Sulla sponda siciliana i sopravvissuti scendono in strada dopo la scossa; si sentono ormai al sicuro, non sanno cosa nasconde quel buio assoluto. Tre onde di tsunami si abbattono su di loro e su quel che resta della città. Solo il 10% degli edifici rimane in piedi. Tra Messina e Reggio Calabria i morti sono 82 mila.

Un’idea tangibile della parola “catastrofe” me la sono fatta al cimitero monumentale di Messina. E’ semplicemente impressionante quante tombe portano il 28 dicembre 1908 sulla data di morte; e stringe lo stomaco quando quella data accomuna un’intera famiglia. La nonna di mio padre, circa 75 anni dopo, ricordava quei momenti con le lacrime lungo il viso. Le si incanalavano nelle rughe, che assumevano un significato più forte mentre parlava del terremoto.

Mi ha sempre destato tristezza e un lieve rimpianto, da folle innamorato di quella città, sentire dire agli anziani che Messina era un gioiello raro prima della tragedia; e che senza sarebbe stata non solo la porta, ma anche la gemma della Sicilia. Non per una questione estetica, ma per via delle persone: “Messina è bedda, sunnu i missinisi chi non mannu na lira”. Dicono così, sono i messinesi che non valgono niente. Ma perchè? Chiedevo. Una volta le teste erano vivaci – mi rispondevano – ma vivaci in senso buono; c’era “tuttu nu sfruculìu” di operosità creativa, collaborazionismo, dignità.

Oggi quella creatività è diventata “mors tua vita mea”, una necessità di sopravvivenza. Non sai da che lato guardarti prima – dicono coloritamente in dialetto. La gente è diffidente, per attitudine molto più che per necessità. E’ come se la città non si fosse mai ripresa dal terremoto; va avanti senza nulla in cui sperare, con le spalle chine e lanciando sguardi stanchi, vuoti. Un disastro di quel genere, in un tempo in cui non c’era nessuna delle tecnologie odierne per scavare, sgomberare e soprattutto ricostruire, evidentemente resta per sempre nel profondo di un popolo. “Ca non c’è nent’i fari”. Mio nonno me lo ripeteva con rassegnato cinismo e guardandomi come un illuso quando vaneggiavo di tornare a vivere là.

Per questo nella battaglia contro il Ponte ho letto un segnale splendido dei messinesi; uno scatto d’orgoglio a difesa non solo della loro terra, ma anche della loro dignità. Come se dicessero “fateci tutto, ma questo no”; significa che Messina, dentro di sè, una speranza ce l’ha eccome.

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