Cosa c’è dietro le dimissioni di Morgando?

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Il segretario del Pd del Piemonte, Gianfranco Morgando, si è dimesso. Lo ha fatto questa mattina, in polemica con le nomine dei viceministri e sottosegretari del governo Letta, tra le quali non compaiono nomi piemontesi. «Sono senza parole – ha scritto nella nota –. Viene penalizzata in modo indegno l’unica grande regione del nord in cui il Pd ha conquistato il premio di maggioranza al senato, e che ha contribuito con 34 eletti alla composizione della nostra rappresentanza parlamentare».

E dopo Morgando, anche il segretario provinciale del Pd di Torino, Paola Bragantini, ha rassegnato le sue dimissioni con una lettera inviata al presidente dell’assemblea provinciale, Mauro Marino.

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«Noi, nativi democratici, e il partito che vorremmo»

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È la sera di mercoledì 17 aprile, quando il Partito democratico candida ufficialmente Franco Marini alla presidenza della repubblica. Il segnale è chiaro: si va verso l’accordo tra Pd e Pdl, non solo per il Quirinale, ma anche per palazzo Chigi. Sui social network parte istantaneo il tam tam “anti-inciucio”, che coinvolge militanti ed elettori del centrosinistra. I giovani del Pd si organizzano subito: iniziano Torino e Napoli, spontaneamente e senza sentirsi; poi, grazie alle foto e alle informazioni che vedono correre sui social network, si uniscono anche Prato e circa 250 tra circoli e circoscrizioni in tutta Italia. Giovedì sera vengono occupate le sedi, da Varese a Bologna, da Palermo a Bari.

Su Twitter usano gli hastag #resetPd e #occupyPd, che diventa subito l’etichetta di un movimento unito e trasversale: bersaniani, renziani, civatiani, lettiani, bindiani, tutti insieme, senza distinzione di area, per chiedere innanzitutto il no all’inciucio.

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Pd, base in fermento: a Torino nasce il patto della Pallacorda

Se un risultato positivo c’è stato, all’interno del Pd, dopo gli accadimenti che lo hanno duramente colpito per l’elezione del presidente della repubblica, è stato sicuramente quello di ricompattare la sua base. Fortemente diviso dalle primarie dello scorso novembre, il popolo del Pd si è trovato unito nella contestazione alla dirigenza a partire dalla scelta di Franco Marini come candidato al Quirinale. Proteste di piazza e sit-in a Roma, mobilitazioni sul web, occupazione delle sedi in tutta Italia. Torino non ha fatto eccezione e, dopo le occupazioni organizzate dai Giovani democratici nei giorni scorsi, nella sede regionale del partito i militanti si sono auto-convocati per discutere di come resettare il Pd. Sala gremita, circa 250 persone, tre minuti a testa per intervenire, pennarelli e lavagna cartacea per disegnare il Partito democratico che vogliono, d’ora in avanti. Tre i punti nodali da cui ripartire: no al governissimo di conservazione con Berlusconi, reset dell’attuale classe dirigente e congresso subito, aperto a tutti.

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La tentazione di Farinetti: “Corro per il Piemonte”

Oscar Farinetti, 59 anni, fondatore di Eataly, potrebbe essere uno dei candidati del centrosinistra alla guida della regione Piemonte. Ha lanciato egli stesso la candidatura, anche se non in maniera ufficiale, questa mattina dalle pagine del quotidiano piemontese Nordovest. «Forse lo farò, non lo escludo affatto» ha risposto a Carlo Passera, che gli chiedeva “Perché non si candida lei stesso alla conquista della poltrona di governatore?”

Questione nata dall’“anti-leghismo” dichiarato di Farinetti, che vede con timore la macroregione del Nord agognata dal Carroccio, soprattutto perché «hanno al primo punto del proprio Statuto la secessione». La cautela di quel «forse lo farò» si scioglie quando guarda con concretezza la strada di fronte a sé. «In Piemonte si andrà a votare nel 2015 – prosegue Farinetti – io avrò 61 anni. Energia penso che non mi mancherà, ma troverò la voglia di intraprendere anche questa battaglia?».

Contando che, a differenza dall’ipotesi del fondatore di Eataly e secondo quanto ha raccontato a Europa l’ex presidente Mercedes Bresso, ci sono buone probabilità che il Piemonte andrà a votare a inizio 2014, Farinetti dovrà sciogliere ben presto le riserve. Le idee su come cambiare la regione sembra averle molto chiare: «Bisogna inventare e propagandare una nuova idea di Piemonte che gli dia grande smalto a livello internazionale – afferma determinato. Serve insomma una sorta di brand, che lo rafforzi come regione top nella gastronomia, che stimoli un turismo “alto”, di qualità, tanto da raddoppiare le presenze e che aiuti a raddoppiare anche le esportazioni delle nostre imprese».

Idee chiare sì, ma a una condizione: «Che la mia parte politica, il centrosinistra, sia un po’ cambiata, che non sia in mano ai funzionari di partito, perché altrimenti li avrei contro e dovrei combattere non una, ma due battaglie». Le simpatie e l’amicizia con Matteo Renzi sono note. Farinetti ha finanziato il tour elettorale del “rottamatore” in Piemonte durante le scorse primarie, è intervenuto all’ultima Leopolda ed è stato a Firenze proprio nei giorni scorsi.

Dopodichè è arrivata questa lunga intervista, nella quale ha espresso posizioni chiare anche sul problema dei problemi piemontesi: la sanità, per la quale l’attuale assessore dichiarò lo scorso ottobre tecnicamente fallita l’intera amministrazione regionale. Insomma, Oscar Farinetti non l’ha ancora dichiarato ufficialmente, ma la sua candidatura pare abbondantemente nel piatto. E se così sarà, nel Pd piemontese la sfida renziana avrebbe trovato il volto nuovo con cui far saltare il banco.

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L’ipoteca Cota sulla macroregione del Nord

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Dopo la conquista della Lombardia da parte di Roberto Maroni, pronta è arrivata la rinuncia del suo omologo piemontese Roberto Cota al seggio alla camera dei deputati: “Resto a fare il governatore”. Dopotutto, è l’opinione di Cota, la coalizione di centrodestra che regge la sua maggioranza in Piemonte ha tenuto alla prova delle elezioni politiche, nonostante gli attacchi della sinistra e le inchieste della procura di Novara, che hanno portato alle dimissioni dell’assessore allo sviluppo Massimo Giordano (accettate proprio ieri dal governatore, ndr).

Il legame tra il trionfo di Maroni e la decisione di Cota va sotto il nome di “macroregione del Nord”, immediatamente evocata dal segretario leghista dopo averla spuntata alle urne su Ambrosoli. “E’ chiaro che adesso non lo faranno dimettere” commenta con Europa Mercedes Bresso, che ha preceduto Cota alla guida di Palazzo Lascaris. “Andranno avanti a tutti i costi, nonostante avranno da approvare un bilancio consuntivo con un miliardo di euro di buco”. Se dunque non saranno le inchieste e i buchi di bilancio a fermare la macroregione del Nord, “che peraltro è un progetto europeo che nulla ha a che vedere con quello leghista”, Bresso ricorda che Cota ha un ostacolo ben più difficile da aggirare.

La vicenda risale alla loro contesa elettorale del 2010, nella quale il leghista prevalse di circa novemila voti e alla quale seguì il ricorso della candidata Pd. “La Lista Consumatori di Michele Giovine, – spiega Bresso – che prese oltre 2.800 voti, è già stata annullata dalla magistratura e Giovine è stato condannato anche in appello per firme false”. Manca ancora la Cassazione, che deve decidere pure sull’altra lista contestata all’ex consigliere regionale. “La lista del Partito dei pensionati (quasi 27.800 voti, ndr) è completamente falsa: a parte Giovine, padre e fidanzata, è composta da cugini e parenti che non sapevano di aver firmato ed essere in lista. Le sentenze ci sono state, favorevoli sia in primo sia in secondo grado, hanno voluto fare ricorso anche in Cassazione, che ormai è una regola più che una possibilità, ma gli esperti dicono che le condanne in entrambe i precedenti gradi di giudizio vengono confermate dalla Cassazione nel 95-96% dei casi”.

Insomma, l’annullamento delle elezioni del marzo 2010 è appeso ai tempi della giustizia. “Il giudizio della Cassazione arriverà il 9 luglio prossimo. Abbiamo chiesto un anticipo, ma è poco probabile perché la corte è oberata. Dopodichè loro si rivolgeranno nuovamente al Consiglio di stato, che sulla vicenda li ha già respinti in precedenza, mentre il Tar del Piemonte sarà molto veloce, poiché lavora anche ad agosto. Diciamo che tra la fine di settembre e i primi di ottobre la questione sarà chiusa; poi ci sono i tempi tecnici e istituzionali per l’indizione delle nuove elezioni”.

Anziché concludersi regolarmente nel 2015, perciò, la presidenza Cota si fermerebbe con oltre un anno d’anticipo. “Meglio di niente, visti i tempi della giustizia; prima se ne vanno e meno danni fanno” chiosa la Bresso. Anche il progetto leghista della macroregione del Nord, dunque, potrebbe avere i mesi contati.

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Piemonte al fotofinish, un sorpasso dopo l’altro

Massima incertezza in Piemonte, dove si gioca un testa a testa all’ultimo voto tra la coalizione di centrodestra e quella di centrosinistra, con Grillo stabile al terzo posto intorno al 25%.

I dati attuali, quando mancano meno di 800 sezioni, ribaltano sia le previsioni dei sondaggi sia gli instant poll e le prime proiezioni, che davano il centrosinistra in vantaggio. Un vantaggio che è andato scemando col trascorrere delle ore fino a stabilizzarsi su un sostanziale pareggio, con la coalizione berlusconiana in vantaggio di meno di un punto. Adesso il centrodestra guida con lo 0.6% di distacco, ma mancano all’appello le sezioni della cosiddetta “cintura rossa”, ossia i comuni attorno a Torino, storicamente di sinistra.

Per questo, tutto lascia pensare a un sorpasso decisivo in extremis per Pd e compagni, che dovrebbero così aggiudicarsi i 13 senatori assegnati dal premio di maggioranza.

Tra i politici nessuno si sbilancia nel pronostico, visto l’andamento della giornata, ma l’elenco delle sezioni mancanti tengono alta la speranza a sinistra.

Sarà una volata al fotofinish in Piemonte, fiato sospeso fino al colpo di reni finale tra Berlusconi e Bersani.

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Roberto Cota e il parallelo con Formigoni

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Ce la farà Roberto Cota a portare a termine la sua legislatura da governatore del Piemonte? La questione ritorna in seguito alle nuove turbolenze giudiziarie che scuotono la sua giunta e che hanno portato alle dimissioni dell’assessore allo sviluppo economico Massimo Giordano (Lega Nord), indagato dalla procura di Novara per corruzione, concussione e abuso d’ufficio.

Cota ha respinto le dimissioni dopo aver ricevuto dall’interessato la conferma dell’estraneità ai fatti, ma i consiglieri regionali d’opposizione sono tornati a chiedere lo scioglimento dell’assemblea piemontese, le dimissioni di governatore e giunta e nuove elezioni. Come lo scorso ottobre, quando l’assessore alla sanità Paolo Monferino aveva dichiarato «tecnicamente fallita» la Regione, per via di un buco di 900 milioni di euro scoperto nella sanità piemontese.

Allora giravano voci che volevano Cota dimissionario entro lo scorso Natale, ora invece il Governatore sembra deciso ad andare avanti. E l’aver respinto le dimissioni di Giordano può valere come un segnale in questa direzione, anche perché solo pochi mesi fa, nel novembre scorso, sempre in seguito a una (diversa) vicenda giudiziaria, Cota ventilava invece l’ipotesi di allontanare Giordano. Non se ne fece nulla, vuoi per evitare di fornire segnali di divisioni e debolezza interna, vuoi per evitare un gesto che avrebbe potuto causare un’escalation simile a quella che ha portato alla caduta della giunta Formigoni.

Ecco, Formigoni. I paralleli tra i due governatori si sprecano anche oggi, alimentati dall’opposizione piemontese che invoca la chiusura della legislatura secondo lo stile lombardo. I punti di differenza tra i due casi, tuttavia, non sono pochi, a cominciare dal fatto che l’alleato della Lega a Torino, il Pdl, non ha nessuna intenzione di far cadere Cota per ragioni giudiziarie, come avvenne a parti invertite a Milano. I consiglieri pidiellini hanno infatti accolto con favore il respingimento delle dimissioni di Giordano. Lo “scandalo” piemontese, inoltre, pur essendo solo l’ennesimo di una lunga serie, ha sicuramente una portata più limitata rispetto a quello lombardo e, di conseguenza, una eco diversa anche all’interno di opinione pubblica e media. Insomma, su questi versanti Roberto Cota pare poter dormire sonni tranquilli.

Ciò che invece va considerato è che le inchieste portate avanti dalla procura di Novara coinvolgono anche altri personaggi vicini a governatore e assessore: la portavoce di Giordano, Isabella Arnoldi, candidata per la Lega alla camera nel collegio Piemonte 2, e il marito di lei, Giuseppe Cortese, già responsabile della segreteria politica di Cota e ora membro della cabina di regia dell’Expo 2015 in rappresentanza della regione Piemonte. Per il momento, perché le indagini  – come ha spiegato il procuratore capo Francesco Saluzzo – seguono vari filoni, nei quali la Lega Nord piemontese (e novarese in particolare) rischia ulteriori coinvolgimenti.

Altro dettaglio non di poco conto è il fatto che lo stesso Cota è candidato alla camera (capolista in Piemonte 2) nelle elezioni del prossimo weekend. Dunque, se proprio la sopravvivenza in piazza Castello dovesse essere messa ulteriormente a repentaglio dalle inchieste nelle prossime settimane, non è azzardato pensare che il governatore possa infine cedere anticipatamente le armi per andare a occupare i più comodi scranni parlamentari.

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Pd Brothers: uniti al mercato, divisi allo stadio

L'abbraccio tra Renzi e Bersani al mercato San Paolo di Torino

L’abbraccio tra Renzi e Bersani al mercato San Paolo di Torino

Dal palco dell’ObiHall al bagno di folla al mercato San Paolo di Torino. Renzi e Bersani, i “Pd Brothers”, scelgono di ritrovarsi insieme in mezzo alla gente dopo l’intervento del segretario al Teatro Regio e poco prima di quello del sindaco di Firenze alla Galleria d’Arte Moderna.

Arriva prima Renzi, puntuale alle 14.30. Firma autografi, si sottopone alle foto coi sostenitori, chiacchiera con la gente. Un signore gli porge il proprio telefono, all’altro capo del quale c’è la figlia: “ti devi fidare di Bersani” – le dice il “rottamatore”, cercando di convincerla a votare Pd nonostante non sia lui il candidato.

E il candidato, Pierluigi Bersani, arriva poco dopo, preceduto da Piero Fassino, che saluta Renzi e poi si defila. I Pd Brothers si abbracciano e scherzano sulla partita Juventus-Fiorentina che andranno a vedere insieme, ma separati dal tifo, tre ore più tardi. “Già ho perso le primarie, se perdo anche la partita poi ti sfido a calcio in costume o alla maratona”. “Preferisco il calcio in costume” – risponde ridendo il segretario.

Matteo Renzi è atteso alla GAM, già piena ben oltre i 300 posti disponibili. Saluta Bersani e s’infila in macchina con Giuseppe Catizone, sindaco di Nichelino. Sul palco ricorda la durezza con la quale sono state condotte le primarie, da una parte e dall’altra. “Dopo – dice – molte cose con Bersani sono state chiarite, altre no”. Poi torna al presente, a una campagna elettorale in cui “c’è uno schieramento che vuole vincere e gli altri che invece giocano a non farlo vincere”.

Attacca soprattutto Ingroia: “nonostante possa sembrare politicamente scorretto, è oggettivo dire che il voto a Ingroia è un voto di testimonianza. Tecnicamente favorisce la rimonta di Berlusconi”. Poi affonda: “se un magistrato sceglie di entrare in politica deve essere costretto a dimettersi. Con che credibilità torna a fare il PM?” Il Cavaliere lo prende di mira per definirlo “uno che affitta la speranza per tre mesi”. Per questo non va sottovalutato l’ex premier, perché i sogni irrealizzabili che offre riescono a far breccia in quella speranza. “A quelli che dicono ‘quasi quasi voto Berlusconi’ bisogna rispondere che devono arrendersi alla realtà”. E passa ad elencare le promesse mancate del Cav, come la Salerno-Reggio Calabria, che nel 2001 prometteva di finire in tre anni.

Fa un passaggio sulla banda larga, che “è il futuro di questo Paese; il divario digitale va combattuto concretamente”. L’attacco a Monti è frontale e ha come fulcro la credibilità, sulle tasse che promette di togliere dopo averle messe ma non solo: “non è credibile se Monti dice che ciò che ha fatto è merito suo e ciò che non ha fatto è colpa dei partiti”. Evidenzia anche l’inefficacia di provvedimenti adottati senza uno sguardo comprensivo e complessivo: “si dice che ci vuole un giorno per aprire un’impresa, ma poi ci vuole un anno per ottenere i soldi dalle banche”. Banche che si preoccupano più di “acquistare altre banche ricavando surplus di tre miliardi”.

Alla credibilità di Monti contrappone la sua e ne approfitta così per spiegare il comportamento che ha adottato dopo le primarie: “non ho fatto la mia correntina perché con la guerriglia interna non si consente a chi vince di rispettare le promesse. Non barattiamo la nostra faccia con una poltroncina”. Per l’endorsement a Bersani parte ancora dalla sua stessa credibilità e onestà: “voterò Bersani non perché ormai l’ho detto o perché mi aspetto che ci sia qualcosa per me, ma perché credo che lui sia il candidato che ha più chance di fare una proposta di governo”.

Prima di raggiungere il segretario allo “Juventus Stadium” si congeda dai suoi rassicurandoli che ci riproverà: “a quel castello in aria costruiremo le fondamenta, non preoccupatevi, ci riusciremo”.

(Articolo pubblicato su TGregione e TGParlamento)

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La consacrazione delle primarie e la finezza di Renzi

Renzi e Bersani insieme all'ObiHall

Renzi e Bersani insieme all’ObiHall

Venerdì sera all’ObiHall di Firenze sono state definitivamente consacrate le primarie del Pd. Nel senso americano del termine: campagna elettorale dura, durissima, ma poi tutti a giocare lealmente per il partito e per l’Italia. Venerdì sera l’ObiHall ha messo a tacere chi sostiene che da noi le primarie sono un istituto controproducente, perché non abbiamo la cultura dell’agonismo sano, ma solo quella del campanilismo radicale. “Impossibile restare uniti dopo una competizione del genere” – recitava un mantra durante la campagna elettorale tra i “Fantastici Cinque”.

Pierluigi Bersani e Matteo Renzi, più avanti di molti dei rispettivi sostenitori, hanno regalato innanzitutto questo al Pd; anzi, al Paese: la capacità di selezionare in maniera competitiva la leadership senza che questo significhi rompere un partito. Bensì rafforzarlo, renderlo consapevole della propria forza. “Ci si dice in faccia ciò che si ha da dirsi, prima; poi, quando i cittadini scelgono, si rispetta e non si utilizzano correnti interne per fare una guerriglia costante che indebolisce istituzione e schieramento” – ha sintetizzato Renzi, aggiungendo che “non ci sono bersaniani e renziani, ci sono i democratici”. Gli ha fatto eco più volte il segretario, rivendicando di aver voluto le primarie esattamente come Renzi e riconoscendo al suo ex avversario di essere stato “un protagonista del rinnovamento e dell’allargamento” del partito. Questo è il primo dato forte uscito dall’ObiHall.

Il secondo è la prova di forza del sindaco di Firenze. Potevano organizzare l’iniziativa principe della campagna elettorale, il “Pd Brothers”, nelle regioni in bilico, in quelle decisive per il Senato o in quelle dove Renzi è forte ma Bersani e il Pd sono deboli. A Milano, Napoli, Palermo. In territorio neutro. Invece l’hanno fatto a Firenze, dove il Pd vincerà a mani basse. Perché?

Renzi ha portato Bersani nella sua tana, davanti al suo pubblico, di fronte ai suoi cittadini, gli ha mostrato il suo popolo e gli ha dimostrato il peso, l’atmosfera e l’entusiasmo che è in grado di suscitare. E davanti al suo popolo ha dettato al segretario la sua “agenda”. Ha usato simbolicamente “Firenze” e “Italia giusta” per ritrarre se stesso e Bersani al governo. “Chiusa la parentesi delle primarie, Firenze può dare una mano per l’Italia giusta. In che forme, in che modo?” E ha iniziato a sciorinare i suoi punti: “Innanzitutto, caro segretario, Firenze sogna un’Italia giusta che si occupi di grandi temi”. A cominciare dalle questioni internazionali, passando a quelle europee e arrivando ai problemi nazionali, Matteo Renzi ha illustrato al segretario gli ambiti in cui può aiutarlo; ma non solo: la finezza politica del “rottamatore” è stata il metterglieli pubblicamente in agenda quegli ambiti. È come se gli avesse detto: “io e la mia gente (Firenze), qui davanti a te, ti diciamo che possiamo aiutarti in questo, questo e quest’altro; ciò però significa anche che io e la mia gente vogliamo che tu questo, questo e quest’altro lo faccia”. E’ il contributo programmatico di Firenze, alias Matteo Renzi, all’Italia Giusta, alias Pierluigi Bersani. È quel tentativo di sintesi programmatica che garantirebbe il successo completo dell’istituto delle primarie.

Ma è anche il modo che il sindaco ha usato per dire ai suoi che è così che si fanno valere idee e peso politico. Sottoforma di contenuti, non di poltrone. L’ha ribadito più volte nel corso del suo intervento: “noi non siamo oggi a contarci in un gioco di correnti”. L’ha sempre detto dopo le primarie, non glien’è mai importato nulla di avere 50, 60 o 100 parlamentari. “Non farò come gli altri che perdevano le primarie e creavano una corrente minoritaria interna al partito”. Perché se è vero che Matteo Renzi è riuscito a radunare consenso attorno a delle idee, allora sono quelle stesse idee il suo peso politico ed elettorale nel partito. Ciò che ha fatto il sindaco all’ObiHall è stato rivendicare una giusta rappresentanza per quelle idee nel programma di Bersani. “Il prossimo giro tocca a te” – gli ha detto il segretario, facendo intendere che l’Italia Giusta non percepisce più il sindaco di Firenze come un corpo estraneo, ma come un leader vero: il prossimo, appunto.

(Articolo pubblicato su TGParlamento.it, TGregione.it, Atom Heart Magazine)

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Armstrong confessa, anche di voler tornare alle gare

Lance Armstrong

Fino al 2005 sì, nel 2009 e 2010 “assolutamente no”. Ha ammesso di essersi dopato nel periodo giuridicamente ormai coperto da prescrizione, mentre lo ha negato in quello “sensibile” dal punto di vista legale. Lance Armstrong ha risposto con una sequela di “yes” alle domande dirette e precise di Oprah Winfrey, che gli chiedeva se avesse mai fatto uso di Epo, testosterone o trasfusioni di sangue nei suoi sette Tour de France e nel corso della sua carriera.

Era quello il “cocktail” di doping utilizzato dal texano: “Epo non troppo”, ha specificato. E’ apparso freddo, pienamente padrone di se stesso, durante l’intervista trasmessa negli Usa in due puntate, nelle nottate italiane di giovedì e venerdì. Non ha tradito emozioni, tranne quando ha ricordato come il figlio Lucas lo avesse difeso dalle accuse di doping. “Pensi fosse umanamente possibile vincere sette Tour de France consecutivi senza l’aiuto del doping?” – gli ha chiesto la Winfrey. “No, maybe no” – ha risposto lui.

Voleva mantenere quell’aura d’invincibilità che si era creato e che sentiva propria, quella stessa che adesso necessita di un percorso per essere cacciata. Per questo ha iniziato col rilasciare quell’intervista, con l’ammettere tutto ciò che ha sempre negato, a costo di portare in tribunale colleghi, compagni di squadra, medici. Ha rovinato la carriera di persone come Filippo Simeoni, corridore di seconda fascia che aveva testomoniato contro il “medico” Michele Ferrari, il guru del doping. Nel tour del 2004 l’italiano entrò in una fuga durante una tappa senza troppe pretese: Lance, in maglia gialla, scattò per andarlo a riprendere e farlo desistere dal tentativo. Al suo riassorbimento nel gruppo, Simeoni subì ingiurie e sberleffi da molti colleghi. Fu un atto di arroganza e di avvertimento a chiunque altro avesse in futuro potuto avere l’intenzione di parlare.

Ora Armstrong dice di voler passare il suo tempo a chiedere scusa alle persone che hanno creduto in lui, che lo hanno sostenuto, alla sua fondazione contro il cancro “Livestrong“, dalla quale si è dimesso in quello che per lui è stato “il momento più umiliante”. Chissà se si ricorderà anche di chiedere scusa a Simeoni, per quello che può valere. Armstrong il cancro l’ha sconfitto prima di vincere i sette Tour e sostiene non sia stato il doping a causarglielo: “nessun dottore mi ha detto questo”.

Di sicuro, adesso che l’Uci (Unione Ciclistica Internazionale) gli ha cancellato tutti e sette i tour e quasi tutte le altre vittorie ottenute in carriera, (e il Cio gli ha ritirato la medaglia di bronzo delle Olimpiadi di Sidney 2000), quella contro il cancro resta la sua unica vittoria, la più importante a cui una persona, prima che un atleta, possa ambire. Ma nonostante quel faccia a faccia con la morte, lui non ha smesso di mettere a repentaglio la propria vita, preferendo nutrire col doping la sua smania d’invincibilità. Anzi, ha usato l’immagine di quella vittoria per celare l’imbroglio di cui si stava rendendo protagonista. “Vuoi che uno che ha sconfitto il cancro ora faccia uso di doping?” – era una delle opinioni circolanti tra gli appassionati, specie di fronte ai suoi primi successi al Tour.

Ma non solo, Lance Armstrong è stato bandito a vita da ogni competizione ufficiale, che sia di ciclismo o di scacchi. E’ questa per lui la punizione più difficile da mandare giù: “adorerei avere di nuovo il diritto di competere” – dice. “Non le gare ciclistiche: ci sono tante altre cose che vorrei fare, ma non posso con questa penalizzazione e punizione, come correre la maratona di Chicago quando avrò 50 anni”. Considera quel divieto come una “condanna a morte”, ma dimentica che l’unico condannato a morte in quest’ambito, per molto meno e con nulla di provato, fu il nostro Marco Pantani.

The yellow jersey US Lance Armstrong (R) rides wit

Foto giornalettismo.com

Qui la cronistoria completa della vicenda doping legata a Lance Armstrong. Di seguito, due video realizzati da corriere.it con estratti dell’intervista rilasciata a Oprah Winfrey.

(Articolo pubblicato su Atom Heart Magazine)

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