S’intensifica l’intervento francese in Mali: attese le decisioni di Onu e Ue

Mali-Guerra-Francia

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Dopo nove mesi di occupazione islamista nelle regioni del nord del Mali, il presidente francese Hollande, venerdì scorso, ha risposto positivamente alla richiesta di sostegno militare avanzatagli dal Capo di Stato maliano, Traoré. La Francia conta numerosi propri cittadini che vivono e lavorano nell’ex colonia africana.

Oggi, al loro quinto giorno di guerra, i Transalpini hanno 750 uomini impegnati nell’Operazione “Serval”, ma è un numero destinato ad aumentare nelle prossime ore. Una quarantina di blindati francesi di stanza in Costa D’Avorio hanno infatti raggiunto questa notte la capitale Bamako e sono pronti ad intervenire in ogni momento. Mentre parte dei 700 militari nella base di Abu Dhabi sono già in stato di pre-allarme. I soldati francesi operano via terra a fianco delle truppe regolari maliane e offrono appoggio aereo con bombardamenti che la notte scorsa, secondo i dati riportati da Hollande, hanno concluso la missione centrando tutti gli obiettivi e uccidendo almeno cinque jihadisti.

Domenica le vittime erano state una sessantina, con i miliziani affiliati ad Al-Qaeda, ieri, costretti a evacuare le loro roccaforti nel nord. Il baricentro dei combattimenti si è ora spostato a ovest, dove gli islamisti hanno sconfitto l’esercito regolare a Diabaly, 400 chilometri a nord di Bamako, e occupato la cittadina. Una “ritirata tattica”, secondo Senda Ould Boumama, portavoce dei mujaheddin.

Mentre attendono i rinforzi dell’Ecowas, la Comunità Economica degli stati dell’Africa Occidentale, annunciati in “centinaia di uomini”, i francesi hanno subito due perdite e hanno provocato undici vittime tra i civili, di cui tre bambini, ferendone oltre sessanta. Gli Stati Uniti, finora, hanno fornito appoggio logistico, promettendo anche l’invio di supporti tecnici. Oggi è prevista una riunione d’emergenza del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che si occuperà di fare il punto sulla situazione nel Mali e di prevedere le modalità di un eventuale intervento. Intanto, questa mattina l’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite ha fornito i primi numeri: circa 230 mila profughi e 150 mila rifugiati, di cui 54.100 in Mauritania, 50.000 in Niger, 38.800 in Burkina Faso, 1.500 in Algeria.

L’iniziativa francese ha ricevuto il beneplacito inglese, mentre il Ministro per i Rapporti col Parlamento di Parigi lamenta l’assenza dell’Europa: “si può dire che la Francia è da sola – ha detto Alain Vidalies -, la mobilitazione europea è piuttosto minimale”. Catherine Ashton, capo della diplomazia Ue, ha convocato per giovedì una riunione dei ministri degli esteri dell’Unione, durante la quale “si stabiliranno le possibili misure d’intervento in sostegno del Mali”.

Romano Prodi, inviato speciale dell’Onu per il Sahel, si è detto molto preoccupato per il precipitare della situazione nel Paese. Il 20 novembre scorso, in base al rapporto di un gruppo di esperti, l’ex premier italiano aveva  dichiarato possibile un intervento armato nel Mali del nord solo a partire dal settembre 2013. “Il proseguimento degli sforzi della comunità internazionale e delle organizzazioni regionali e sub-regionali africane – hanno fatto sapere fonti russe dopo un colloquio telefonico tra Prodi e il Ministro per gli Affari Esteri Lavrov – è necessario per riportare la crisi del Mali sui binari delle specifiche risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu”.

(Articolo pubblicato su TGregione.it e Atom Heart Magazine)

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Renzi, cosa c’è dietro la “logica dello staff”?

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Senza dubbio le reazioni più forti, all’indomani della presentazione delle liste del Pd per il prossimo Parlamento, le hanno destate le esclusioni eccellenti di alcuni esponenti della “quota Renzi”. Quelli che dovevano essere i diciassette nomi decisi dal sindaco di Firenze, ma che sembrano non essere più di quindici, sono stati concordati con Bersani, stando alle parole di Letta, nel corso del famoso pranzo romano della scorsa settimana. E a giudicare dall’esito, è prevalsa nel “rottamatore” la logica dello staff.

Come già illustrato nell’articolo appena linkato, Renzi ha preferito mandare in Parlamento i membri più prettamente organizzativi del suo entourage, Bonafè, Boschi e Lotti, sacrificando tra questi Reggi e lasciando fuori una componente “tecnica” come il costituzionalista Francesco Clementi. Una scelta non solo in controtendenza con la campagna per la meritocrazia che il sindaco di Firenze ha intrapreso durante le primarie, ma anche rischiosa. Rischiosa perché mette a dura prova il “sentiment” che nei suoi confronti hanno sia i collaboratori più stretti sia i suoi sostenitori. In entrambe queste categorie, infatti, oltre a chi naturalmente se la prende con Bersani, ci sono anche quelli che attribuiscono almeno parte della responsabilità a Matteo Renzi. Lo ha fatto Gori dopo le primarie parlamentari, lo ha fatto Reggi in queste ore e lo hanno fatto anche altri più o meno all’ombra del rottamatore.

Ma perché Matteo Renzi si lascia andare a comportamenti “da vecchio democristiano”, per dirla con Antonio Polito (su Twitter), o comunque così rischiosi? Una chiave di lettura potrebbe essere la stessa con cui in ambienti vicini al sindaco di Firenze si motivava il suo silenzio post-primarie: non vuole farsi coinvolgere più di tanto in quella che prevede essere la corsa verso un revival del Prodi 2006. Adattandola al caso specifico delle liste: risparmia i pezzi più pregiati delle sue truppe (senza nulla voler togliere a Bonafè, Boschi e Lotti) per tempi, durate e battaglie più proficui. Anche perché, ricordiamolo, Renzi è quello del “non più di tre legislature”, dei “politici a tempo determinato” ; e la prossima, anche se non durasse cinque anni, varrebbe comunque come prima tacca.

Un’obiezione a questa interpretazione potrebbe essere che tuttavia Renzi si è impegnato a fare campagna elettorale per Bersani, quindi si è fatto coinvolgere e la faccia ce la metterà. Certo, ma al di là del fatto che questa è stata una scelta coerente con quanto ha sempre affermato durante le primarie, può essere utile rileggere quella che è stata la sua prima uscita nelle vesti di “bersaniano”. Su Repubblica, Renzi ha lanciato segnali chiari, innanzitutto parlando della fase che sta vivendo adesso, quella “della dignità, della lealtà e della correttezza nella sconfitta”: “io scelgo un’altra via – ha detto – che è anche l’unica per riprovare in futuro a lanciare una nuova sfida”. E poi ha precisato: “prima o poi ci riproveremo. Ci saranno altre stagioni. Non disperderemo lo straordinario patrimonio delle primarie”. Ma non solo: “se avessimo vinto noi sarebbe stata un’Italia diversa e un Pd diverso. Non mi consolo e non mi accontento”.

Dunque, Matteo Renzi ha introdotto questo elemento di novità: ha perso, ma rimane nella squadra e gioca per lei “anche se non la allena”. In questo modo ha dimostrato ai suoi avversari interni e all’elettorato avverso di centrosinistra qual è la sua credibilità. “La credibilità viene prima di tutto”, ha detto. E può essere il primo passo per guadagnarsi le simpatie e il supporto che ancora gli manca per essere maggioranza nel partito. Aiutare la sua squadra oggi per allenarla domani, magari insieme a chi oggi sembra aver ricevuto da lui un trattamento ingrato.

(Articolo pubblicato su Tempi)

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Monti contro tutti, tutti contro Monti

Fotogramma da "Unomattina"

Fotogramma da “Uno Mattina”

Da Monti contro tutti a tutti contro Monti. Funziona così anche per il Professore, che, svestiti ufficialmente i panni del tecnico, è entrato nell’agone elettorale girando ceffoni a destra e a manca, con la consueta sobrietà di modi, ma con un deciso passo indietro sulla linea della belligeranza.

Chiaro, in campagna elettorale anche così s’ha da fare, e meglio con eleganza che con gli alterchi cui siamo abituati, ma frasi come “tagliare le ali estreme” o “silenziare la parte conservatrice” suonano male soprattutto sulla bocca di chi le parole, solitamente, le sceglie con cura quasi maniacale. Anche perché le ha pronunciate nel contesto di quelli che volevano essere consigli a uno degli avversari, Pierluigi Bersani, e in questo senso si corre il rischio di apparire arroganti. Quando sarebbe più propositivo suggerire ai contendenti proposte programmatiche su cui confrontarsi, regalando così ai cittadini quella campagna elettorale civile e costruttiva che dopo vent’anni meriterebbero. Chiamiamola pure una campagna elettorale “tecnica”.

Invece no, si alimenta la “caciara”, perchè è naturale che poi i diretti interessati partano al contrattacco. A cominciare da Brunetta, che dà a Monti del “disinformato e pasticcione” in risposta alla sua  gaffe in perfetto humor inglese: “sta portando, con l’autorevolezza del professore e di una certa statura accademica” il Pdl su “posizioni estreme e settarie”. Restando alla destra del Prof., Berlusconi si prende del volatile (aggettivo, non sostantivo) per il suo “giudizio sulle vicende umane e politiche degli ultimi tempi”, continuando così sulla falsa riga di quelle “difficoltà a seguire la linearità del suo pensiero” che Monti aveva ironicamente denunciato nella conferenza stampa di fine anno. Il Cav, per tutta risposta, ha accusato il premier uscente di essere “lontano dalla realtà” e “con lo stipendio sicuro”, affondando poi il colpo: “appare inconciliabile il suo ruolo di Presidente del Consiglio e candidato alle elezioni. Monti si sarebbe dovuto dimettere sia da senatore a vita sia Presidente del Consiglio” (Monti si è dimesso da Presidente del Consiglio il 21 dicembre scorso, ndr).

Sull’altro versante politico, prima Marina Sereni (“Monti eviti di usare argomenti fasulli sul Partito Democratico”) poi Bersani (“chiedo rispetto per il Pd, io non silenzio nessuno”) rispondono alle già citate parole del Professore. Ma non mancano le repliche di Nichi Vendola e Susanna Camusso, che in quelle “ali estreme” si riconoscono. “Monti è sceso pesantemente in campo con la presunzione di chi vuole partecipare ma vuole anche sentirsi arbitro della partita – dice il Governatore della Puglia, e aggiunge: “c’é un elemento di arroganza che va respinto”. “Trovo abbia poche proposte e molte critiche – gli fa eco la leader della Cgil – chi ha deciso di candidarsi alle elezioni dovrebbe discutere dei suoi programmi”.

Ecco, i programmi, quelli che anche oggi sono mancati.

(Articolo pubblicato su TGParlamento.it e TGregione.it)

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Termina la legislatura, adesso massima allerta sul populismo

Immagine mondoraro.org

Corriamo un grosso pericolo in Italia. Si chiama populismo e ha i volti di Silvio Berlusconi e Beppe Grillo. Non si offendano gli uni e gli altri, ma più passano i giorni più appare evidente la contiguità tra i rispettivi bacini elettorali. Spread, Imu e tasse i cavalli di battaglia che li uniscono, ce ne siamo già accorti. La campagna elettorale in arrivo sarà la peggiore della storia italiana, proprio per l’elevatissimo tasso di populismo di cui sarà intrisa.

Certo, Berlusconi c’era anche prima e ce ne ha già fatte sorbire oberanti quantità, ma stavolta sarà ancora peggio. Perché si arriva da un anno di sacrifici enormi richiesti ai cittadini, scelte impopolari, errori socialmente rilevanti. Insomma, il terreno è fertile per le vanghe populiste. Oltretutto c’è poco tempo e, specie l’ex premier, è gravemente in ritardo nei sondaggi. Lo conosciamo, farà di tutto per recuperare, ce ne sta dando generosi assaggi in questi giorni.

Prepariamoci, dunque, ma soprattutto si preparino gli altri partiti. Perché l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno, stavolta più che mai, sono populismo e demagogia, approssimazione, incompetenza e faciloneria. Il guado della crisi è tutt’altro che attraversato, la prossima legislatura è cruciale. Pd e centristi non possono concedersi errori, tatticismi o meline d’interesse, ma devono costruire basi solide a un quinquennio fondamentale. Non devono lasciare più spazio del dovuto, del fisiologico, a forze inaffidabili e oggettivamente pericolose. Ci saranno riforme strutturali fondamentali da mettere insieme e approvare. Non perché ce lo chiede l’Europa, ma perché ce lo chiede il futuro del Paese, che viene prima di ogni altra cosa, in primo luogo delle aspirazioni di parte.

Sono diciotto anni che vivacchiamo sulle aspirazioni di parte e siamo giunti al punto di non ritorno. Di “non ritorno”, appunto. Mentre, per come si stanno delineando le cose, il rischio di arrivare ancora lì è alto. Si faccia politica, semplicemente, che significa trovare il miglior compromesso risolutivo per il bene della cosa pubblica. Con decisione, lucidità, serietà. Senza tentennamenti, ottusità, partigianerie o schizzinose barriere, ideologiche o di partito che siano. Sarà obbligatorio lavorare insieme, Bersani e Monti (se Monti sarà) ne sono capaci, ma devono esserlo tutti alle loro spalle, a partire dagli elettori fino a parlamentari e boiardi di partito, i più pericolosi nel sottobosco della politica. Non si pensi che finito il governo tecnico si possa tornare a giocare col fuoco, alle trascuratezze e allo sterile belligerare del passato.

Pancia a terra e pedalare, insomma. Senza i cingoli tecnici che hanno prodotto evidenti dissesti sociali, ma col rigore che necessariamente serve ancora al Paese. Laddove “rigore” non è una brutta parola. Significa semplicemente che è ora di smetterla di giocare e iniziare a lavorare seriamente nell’interesse del Paese. Come accade altrove, dove fanno politica senza che ciò sia per forza visto come odioso rigorismo tecnico. E non si tratta di questioni di merito, bensì del passo precedente, quello delle intenzioni, dei modus operandi, dell’onestà intellettuale e generale. Qua siamo abituati male e quando finalmente ci sembrava di cambiare rotta sono tornati a far capolino i fantasmi che ci hanno tormentato fino a un anno fa.

Ecco, quei fantasmi, che altro non sono se non populismo, ignavia, incapacità, irresponsabilità, viltà, quando non proprio disonestà, continuiamo a tenerli lontani. E’ vitale che la campagna elettorale sia focalizzata sui contenuti, che non si diano argomenti a Grillo e Berlusconi oltre quelli che già si troveranno da soli, fondatamente o meno. Certo, così si chiede ai politici di essere impeccabili ed è pretendere troppo. Ma almeno che stiano molto attenti, perché il margine d’errore è pericolosamente basso.

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Il Pdl tra Italia Popolare e i “rottamatori” Meloni e Crosetto

Foto Roberto Monaldo / LaPresse

Con la convention di Italia Popolare e le “Primarie delle Idee” di Crosetto e Meloni, domenica 16 dicembre doveva essere il giorno della resa dei conti nel Pdl. E, al 50%, lo è stato. Perché dal palco dell’Auditorium della Conciliazione a Città del Vaticano, i due “rottamatori” azzurri sono stati chiari, netti e duri: “per noi Monti non è l’orizzonte e la candidatura di Berlusconi è un errore” – ha iniziato Giorgia Meloni. “Un centrodestra credibile sa anche dire all’uomo che l’ha fondato e che gli ha portato voti ‘noi non siamo d’accordo con te’” – le ha fatto eco Guido Crosetto.

E poi gli ultimatum al partito: “vogliamo un luogo giusto dove poterci battere. Se quel luogo è il Pdl noi lo dobbiamo e lo vogliamo sapere subito. Altrimenti siamo pronti a costruirne uno con chiunque voglia starci dentro e da subito” – è stato quello della ex ministro; e Crosetto ha rincarato: “oggi siamo qui per mettere dei paletti, irremovibili come lo sono i carretti in pietra. Se c’è spazio per noi ci siamo, altrimenti nessuno ci obbliga a intraprendere una strada che non va nel senso giusto”.

Dall’altra parte, invece, al Teatro Olimpico di Roma, toni e risultati sono stati ben diversi. Perché doveva essere la conferenza dei “montiani” del Pdl, quelli che erano addirittura stati indicati come i componenti di una delle tre possibili liste a sostegno dell’attuale Presidente del Consiglio alle prossime elezioni.  Separati dal Pdl. Ma oltre a loro, i vari Mauro, Quagliariello e Frattini (intervenuto telefonicamente) c’erano anche fedelissimi del Cav quali Cicchitto, Lupi e Giovanardi. E anche un messaggio dello stesso Silvio Berlusconi.

C’era anche il segretario Angelino Alfano, che fuori dirà: “chi ha sperato o auspicato scissioni o divisioni nel Pdl resterà deluso”. Ma soprattutto: “il candidato presidente è Silvio Berlusconi”. E addirittura grida di disapprovazione sono arrivate all’indirizzo di Mario Mauro, capogruppo “dissidente” del Pdl al Parlamento europeo, quando ha prospettato l’idea di Mario Monti alla guida di una federazione del centrodestra. Confusione, dunque, e l’impressione che l’apertura del Cavaliere a Monti abbia sparigliato le carte di Italia Popolare, mantenendo unito il Pdl. La presenza dei cosiddetti “peones” alla convention non è stato altro se non la prova materiale del tentativo berlusconiano di salvare partito e candidatura.

Un tentativo almeno per ora riuscito, per quanto riguarda la parte “vecchia” del Pdl. Tanto più che, spiega Huffington Post, gli organizzatori di “Italia Popolare” sono usciti molto infastiditi al termine dei lavori. Risposte chiare, invece, Berlusconi dovrà darle a chi le proprie istanze non le ha nascoste e, anzi, non ci penserà due volte a cambiare strada qualora esse non vengano accolte.

Foto clandestinoweb.it

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E se a Renzi convenisse perdere?

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Facciamo finta che Matteo Renzi sia riuscito a sovvertire l’esito del primo turno e abbia vinto il ballottaggio delle primarie. Che Pd si trova di fronte, a pochi mesi dalle elezioni politiche?

Sicuramente un partito in cui è fortemente minoritario, soprattutto nella struttura. Il sindaco di Firenze annovera tra le sue file circa una dozzina di parlamentari e qualche segreteria provinciale, poi “cani sciolti” qua e là, sindaci e amministratori locali di perlopiù piccole realtà territoriali. L’alta dirigenza, tranne il vice-presidente Ivan Scalfarotto, tutta schierata contro, specialmente la presidentessa Rosy Bindi e Massimo D’Alema, che hanno già dichiarato battaglia nel caso di una sua vittoria.

Sarà molto dura per lui far emergere le proprie istanze e i propri uomini nella struttura di un partito che lo avverte in gran parte come un corpo estraneo, come destrutturante, come “altro” rispetto al Pd. Ha bisogno del segretario Pierluigi Bersani e ha bisogno di tempo. Sul primo può contare, e lo sa; sul secondo no, e forse sa anche questo.

Su Bersani può contare perché il segretario non solo è persona corretta, ma soprattutto è consapevole che trascurare, od ostacolare, la “corrente renziana” è controproducente per il partito e per il Paese. Sarebbe un errore politico grave, che magari commetterebbero altri, ma non il segretario. La dimensione che l’elettorato ha fornito al sindaco di Firenze va, se non proporzionalmente rispecchiata, quantomeno rispettata nel partito. E in questo senso il lavoro di Renzi e Bersani deve finire con l’imporsi necessariamente prima del congresso con cui si sceglieranno (forse con le primarie) i candidati al Parlamento.

Ma qui, appunto, entra in gioco la variabile tempo. Se tutto va come Napolitano ha sottilmente indicato, si vota il 10 marzo. Matteo Renzi ha tre mesi, giorno più giorno meno, per diventare leader riconosciuto non solo del Pd, ma della coalizione (di quale coalizione, e se coalizione sarà, è un altro elemento di non poco conto). Nell’elettorato il problema non sussiste, nel partito sì. Deve riuscire a trasformare molta avversione in sostegno, deve riuscire a tenere unito il Pd, deve riuscire a far valere come dovuto il suo programma, deve riuscire a fare emergere i suoi uomini, soprattutto quelli nuovi. Un’impresa da portare a termine in tre mesi, pena la fragilità interna del suo eventuale governo e della sua eventuale maggioranza. In un momento di cruciale svolta per il Paese.

Non che Renzi si abbatta di fronte a certe vette da scalare, tutt’altro; ma forse qualche “maremma bucaiola” la lancerà al pensiero che se avesse perso bene, con un 40-44% al ballottaggio, certi diritti d’importanza ce li avrebbe avuti lo stesso, accompagnati però da una disponibilità di tempo maggiore. Maggiore ma non eccessiva, nel caso in cui, come certi scenari lasciano prevedere, Bersani non riuscisse a portare a termine la sua legislatura da premier.

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Bersani vs Renzi, il duello finale

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Hanno confermato le proprie posizioni e stabilito con maggior nettezza le loro differenze. In buona sostanza, le grandi assenti dal dibattito su RaiUno tra gli sfidanti al ballottaggio delle primarie sono state le novità. Pierluigi Bersani ha rispettato i connotati del leader bonario e rassicurante, mentre Matteo Renzi quelli del condottiero rampante e spavaldo.

Sempre rivolto all’attacco, com’è inevitabile che sia per chi deve recuperare, Il sindaco di Firenze ha passato in rassegna con puntualità le mancanze del centrosinistra negli ultimi vent’anni, calando affondi vittoriosi sulla lotta all’evasione, sul finanziamento pubblico ai partiti e sulle alleanze.

Bersani ha avuto la meglio sulle pensioni, dove non ha trascurato gli esodati, a differenza di Renzi, e ha risposto efficacemente ai suoi attacchi sul sistema industriale, quando ha detto “la forbice nord-sud si è ridotta quando c’eravamo noi al governo”. Fermo restando che da un ex ministro ci si aspettava qualcosa di più su questo tema.

La differenza più marcata, in un contesto di evidente piattaforma comune di centrosinistra, l’hanno fatta registrare sul tema delle alleanze. Bersani, senza mai nominare Casini o l’Udc, tranne quando ha parlato della vittoria in Sicilia, ha aperto a un’alleanza coi moderati centristi, nel caso in cui si trovasse un’intesa sui programmi. Renzi è stato molto netto: “nessuna alleanza con Casini, i voti dei moderati ce li andiamo a prendere da soli”. Vocazione maggioritaria contro disponibilità alle alleanze, perché, ha sostenuto Bersani, “quando siamo andati da soli ha vinto Berlusconi”. Salvo poi ammettere che il Pd oggi “ha un altro fisico”.

In linea generale, il “rottamatore” ha ben definito i suoi attacchi agli errori del passato, chiarendo efficacemente che la sua critica non è disfattista, ma vuol essere costruttiva. E qui, tranne nel citato caso dell’industria, il segretario non ha avuto grossi margini di difesa.

Per il resto, non ci sono stati grandi duelli, si è fatta molta retorica sul tema delle mafie e su quello delle donne al governo, si è mostrata ottima preparazione in politica estera. Il fair-play l’ha fatta da padrone, a eccezione della questione degli F35, sulla quale Renzi ha accusato un po’ forzatamente Bersani di demagogia. Ma che i due si stimino e si apprezzino è risultato spesso chiaro, così come tranquillizzante è la prospettiva futura di una loro compatibilità e unità al termine della competizione elettorale.

Ai punti, per usare un gergo pugilistico, ha vinto Matteo Renzi, anche valutando gli aspetti televisivi del confronto: più spigliato, più pronto ed efficace nelle battute, che ha gestito con abilità naturale. Ma non è un successo tale da poter spostare tanto l’esito del primo turno di domenica scorsa. L’elettorato vendoliano è stato corteggiato da entrambi un po’ grossolanamente in materia di diritti; chi proprio non può vedere l’Udc forse sceglierà Matteo Renzi. Ammesso che vada a votare.

Entrambi sono comunque apparsi pronti e preparati a ricoprire la carica di premier, perché di questo, in fin dei conti, si sta parlando. Soprattutto considerando quello che è venuto dopo il loro confronto su RaiUno. È iniziato Porta a Porta, con le varie Gelmini, Meloni, Santanchè e l’onorevole Lupi, a discutere anch’essi delle ormai disperate primarie del loro schieramento. Atmosfera e livello qualitativo si sono incontrovertibilmente abbassati parecchio e il divario tra gli attuali centrosinistra e centrodestra si è palesato in tutta la sua consistenza. Tanto da far pensare che forse, con regole normali o meno restrittive, l’affluenza alle urne per il ballottaggio di domenica prossima si sarebbe impennata. A tutto vantaggio del centrosinistra e della democrazia.

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Primarie: nel confronto tv vince il centrosinistra. Tutto

Sergio Marchionne ed Elsa Fornero. Sono questi i personaggi usciti più malconci dal confronto televisivo tra i cinque candidati alle primarie del centrosinistra. Tutti d’accordo nel condannare politica industriale e atteggiamento dell’Ad Fiat; tutti d’accordo nel ritenere insufficienti, non risolutive, le politiche sul lavoro della ministra, mentre da lacunosa a fortemente ingiusta è stata definita la riforma delle pensioni.

Un dibattito frizzante, in generale, con confronti decisi su temi chiave come la casta e le alleanze, ma senza quegli scontri duri e rissosi che qualcuno si aspettava. Tant’è che i “diritti di replica” sono stati utilizzati piuttosto in là nella serata. Insomma, chi cercava in questo confronto le prime tracce, i primi indizi, delle lacerazioni che la contesa elettorale avrebbe portato nel Pd e nella coalizione, è rimasto deluso.

Fair-play e massimo rispetto tra i candidati, tutti solleciti nel ribadire un punto fermo: l’alleanza è quella sottoscritta con la carta d’intenti. Pd, Sel e Tabacci. “Niente Casini” – per dirla con Renzi, che ha tenuto particolarmente a “togliersi un sassolino” nei confronti di Massimo D’Alema, il quale aveva paventato la “fine del centrosinistra” in caso di vittoria del sindaco di Firenze. “Sia che vinciamo sia che perdiamo, noi stiamo dentro” – ha ribadito lui.

Per quanto riguarda il rapporto con l’Udc, persino Tabacci, il più vicino al partito centrista, ha chiarito senza mezzi termini che, a differenza di Casini, lui Monti lo vuole al Quirinale piuttosto che ancora a Palazzo Chigi.  “Coi moderati possiamo discutere per il bene del Paese – è stata la chiosa di Bersani – ma la coalizione è questa”. Del resto, ha incalzato Laura Puppato, nemmeno Casini ha espressamente chiesto di entrare nell’alleanza. Un’iniezione di sicurezza per Nichi Vendola, che si è sempre speso per una coalizione che escludesse l’Udc: “Non ho pregiudizi su Casini, ma fatico a vederlo con me”.

Nello studio che solitamente ospita le puntate di X-Factor, il format televisivo ha contribuito ad avvicinare un po’ di più politica e cittadini, togliendo ai “concorrenti” quell’aura di alieni privilegiati per far loro vestire i panni di chi deve guadagnarsi la fiducia della gente comune. Perché, in fondo, ci sono parsi un po’ più gente comune e un po’ meno politici. Anche grazie alle domande dei reciproci sostenitori, che si sono rivolti ai candidati loro competitor col piglio di chi non avverte quella distanza che il senso comune assegna a politica e cittadinanza. Efficace, concreta, la sostenitrice della Puppato nel chiedere a Vendola chi voterebbe lui, se non fosse candidato. Emozionata al punto da aggiudicarsi la gaffe della serata, invece, la ragazza che sostiene il Governatore della Puglia e chiede conto a Renzi degli endorsement economici ricevuti da Oscar “Giannetto”. Alias Oscar Giannino, per un divertente gioco di diminutivi.

L’appello finale di un accorato Bruno Tabacci rispecchia il clima della serata: “Non chiedo il voto per me, ma lo chiedo per questa coalizione di centrosinistra, che può farsi carico di quel fardello di cui necessita il Paese”. Mentre la sobria ed equilibrata Laura Puppato si affida alla propria storia politica fatta di “coraggio e concretezza”, che intende usare per far conoscere “un’altra idea di mondo”. Un americanissimo Matteo Renzi loda il clima competitivo ma privo di astio portato dalle primarie, prima di concentrarsi sul futuro: “Penso sia di sinistra – dice – pensare che il futuro può essere vissuto come una sfida, come un piacere, con coraggio, con entusiasmo; e la politica è una cosa bella cui dedicare del tempo”. Poi è la volta di Nichi Vendola, commosso nel ricordare il regresso sociale cui è stato ridotto il Paese negli ultimi decenni ed emozionato nel richiedere un’Italia migliore, “una sinistra che restituisca civiltà, che dia un futuro ai giovani”. Chiude Bersani, determinato nel ribadire come dalla rabbia non si ottenga nulla e chiaro nell’assicurare un governo forte, teso al cambiamento; “Non vi chiedo di piacervi, ma di credermi, e vi dico che insieme ne usciremo”.

Pisapia, in ultimo, viene chiamato a fare gli onori di casa, nella città che ospita gli studi SKY, e invita i candidati a tornare sotto la Madonnina dopo le primarie. Perché è proprio da lì, dall’esperienza vincente di Milano, che il centrosinistra deve “iniziare insieme la cavalcata”. Quella che lo conduca compatto a Palazzo Chigi.

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Grillo vs Renzi: i numeri smentiscono il comico

“A guardare i numeri del bilancio del Comune di Firenze non pare proprio che la città sia sommersa dai debiti”. E’ Il Sole 24 Ore a fare da arbitro nella polemica tra Beppe Grillo e Matteo Renzi. Con questo articolo firmato da Fabio Pavesi, il principale quotidiano economico nazionale sconfessa il leader del Movimento 5 Stelle, che aveva attaccato il sindaco di Firenze accusandolo di andare in giro a fare campagna per le primarie mentre la città affoga nei debiti.

La risposta di Renzi era arrivata, ironica, su Twitter: “Per dire che Firenze affoga nei debiti bisogna non capire nulla di nuoto oppure non capire nulla di economia. Beppe Grillo nuota bene”. Dopodichè, l’assicurazione del suo assessore al bilancio, Alessandro Petretto: “I conti del Comune di Firenze sono in ordine e non destano alcuna preoccupazione. Basta avere un minimo di competenza amministrativa per capirlo senza alcuna ombra di dubbio”.

Così Il Sole 24 Ore è andato a controllare e, in buona sintesi, ne ha tratto che a fronte di un debito complessivo di 753 milioni di Euro il patrimonio netto assomma a 1,76 miliardi di Euro, più un patrimonio immobiliare di circa due miliardi. “Nessuno squilibrio finanziario per la città. – ha concluso - Che invece può vantare su una liquidità crescente: a fine 2011 la cassa era a oltre 140 milioni cresciuta di 60 milioni dal 2010”.

D’altro canto, continua Fabio Pavesi, il sindaco paga caro i debiti di finanziamento, che ammontano a circa il 4,9%, ovvero circa 25 milioni di Euro. “Con i tassi mai così bassi come negli ultimi anni, Renzi potrebbe rimodulare al ribasso la sua spesa per interessi” – è il commento. Per quanto riguarda il conto economico del 2011, esso è in rosso di 10 milioni, trascinato dagli oneri finanziari e straordinari, che “si mangiano completamente il risultato di gestione operativo che era positivo per 19 milioni”. Insomma, per dirla sempre con Pavesi, “rispetto ai disavanzi da centinaia di milioni di molti comuni italiani Renzi può dirsi soddisfatto”.

Il sindaco di Firenze non ha risposto direttamente all’accusa di assenteismo rivoltagli da Grillo, che sul suo blog ha riportato le cifre delle presenze in Consiglio comunale, aggiungendo che “da quando Renzi è in campagna elettorale per le primarie non si è mai presentato in Consiglio Comunale”. Anche Leonardo Pieraccioni, su Twitter, ne ha chiesto scherzosamente conto al “rottamatore”: “e per le assenze? Mostrare video giustificazione dei genitori!”. La risposta, oggi all’ora di pranzo, è arrivata direttamente dall’account del Comune, anche se non per le presenze in Consiglio: “domani sindaco in Giunta alle 15; sabato era nel Salone dei 500 per Florens; venerdì a Palazzo Vecchio per incontri tecnici”.

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Dalla rottamazione alle idee

Era ora che Matteo Renzi abbandonasse la rottamazione e passasse alle idee. Non che fino adesso non abbia parlato delle seconde, anzi, ma di lui è rimasta impressa solo la prima, dando così adito a molti di ironizzare o presumere sull’assenza di un programma concreto.

Programma che invece rappresenta la vera innovazione del sindaco di Firenze, non tanto (o non solo) per i contenuti, quanto piuttosto per la natura della sua composizione. Un testo definito, ma “in fieri”, dove i punti sono stati stilati e sviluppati da Renzi e il suo staff, ma verranno integrati e modificati dai comitati di cittadini sorti in suo appoggio. E’ questa la vera rottamazione della politica tradizionale: chiunque può partecipare alla creazione del programma.

Dei comitati pro-Renzi fanno parte persone di tutte le età, non solo trentenni, che si riuniscono per discutere il testo proposto dal sindaco di Firenze, correggendone lacune e affrontandone criticamente le tematiche. Ciascuno per la propria competenza, con il proprio bagaglio d’esperienza nella vita quotidiana. Le proposte vengono inviate al comitato centrale, che le organizza e seleziona eliminando doppioni e inadeguatezze. Sarà poi Renzi col suo staff, organizzato per settori di competenze, a chiudere il lavoro, redigendo il programma definitivo con le revisioni giunte dai comitati di tutto il Paese. E la Leopolda sarà probabilmente la sede della presentazione.

Questo, in buona sintesi, è quanto accade nel backstage del mondo renziano. La retorica della rottamazione, come da lui stesso sintetizzato, ha permesso allo sfidante di Bersani di crearsi un’identità e di assumere credibilità di fronte agli italiani stanchi delle solite facce. Ma i problemi del Paese non sono fisiognomici e arriva un momento in cui la gente vuole vedere cosa c’è dentro un contenitore che ha attirato il loro interesse. E quando una sostanza c’è è bene mostrarla, per non permettere che quell’attenzione venga dispersa o, peggio, si trasformi nell’ennesima delusione.

Ben venga dunque anche  per questo il passo indietro di Veltroni, perché il dibattito che ha scatenato nel Pd è stata la scintilla che ha permesso a Renzi di accantonare la rottamazione. La melina di D’Alema è stato il pretesto conclusivo per il sindaco di Firenze, che ha voluto intendere anche questa come “passo indietro”, nonostante di ciò non si tratti. Non gli sarà sicuramente sfuggita la condizione posta dal presidente del Copasir: “se Bersani vince mi ritiro, ma se vince Renzi darò battaglia”. Ergo, o Renzi dà per scontato di perdere le primarie oppure crede che la rottamazione reale raggiungerà il suo scopo solo vincendole. Perché, c’è da chiedersi, la lotta di D’Alema si scatenerebbe dentro o fuori rispetto allo schieramento del Pd?

(Articolo pubblicato su qdR magazine)

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