Microblogging su microblogging

Ho raccolto su Twitter una piccola “innovazione”, figlia del compromesso tra volontà e mezzi a disposizione, una sfumatura di quell’arte d’arrangiarsi che stimola la fantasia.

In effetti spesso i 140 caratteri mi vanno stretti. Ma sono troppo pigra per un blog vero, quindi per ora accontentatevi di questo“, così IsaBella, o @isa_isola, che dir si voglia su Twitter, mi ha spiegato quel compromesso, lo screenshot di una nota (direi su iPad) che diventa microblogging se pubblicata all’interno di un tweet.

Che poi Twitter altro non è se non, a sua volta, una piattaforma di microblogging; ecco perchè questo suo escamotage ha attirato l’attenzione di chi come me è appassionato delle forme che la comunicazione può assumere. Ed ecco perchè la divulgo su uno strumento tradizionale, “un blog vero”.

Riporto, letteralmente:

“Questi ministri tecnici evidentemente non sanno scegliere bene le parole. Prima gli sfigati/bamboccioni, ora il don’t be choosy.
Be’, sbagliano le parole e il modo forse, ma dicono la verità. Preferivate forse un Berlusconi che vi fa credere di poter diventare come lui (dai, è per questo che lo votate…) e in realtà se ne sta lì a mangiare alle vostre spalle, a cancellare e riscrivere leggi a proprio uso e consumo?

Chi si è sentito offeso dalla Fornero faccia una riflessione: non essere schizzinoso non vuol dire non aspirare a qualcosa di meglio. Vuol dire semplicemente essere concreti, guardare dove si è, essere onesti con se stessi e cercare un lavoro di conseguenza. Vuol dire che se il lavoro non lo trovo sotto casa ho due scelte: o abbasso le mie esigenze o faccio le valigie e me ne vado. Di certo non mi aspetto che il governo mi crei il posto di lavoro ideale fuori casa. Una volta era così: uffici delle P.A. ovunque, e abbiamo visto dove ci ha portato l’enorme conseguente debito pubblico ed il problema delle baby pensioni nella P.A.

Il problema è che in questo paese vogliamo tutti essere impiegati, meglio se capi di qualcun altro, e ovviamente a due passi dalla mamma. Ma nessuno che voglia farsi la gavetta. Io per arrivare dove sono ho lavorato quasi ogni estate da quando ho 12 anni. Ho fatto la magazzieniera, la cassiera, la gelataia, la cameriera, più molti altri lavori di concetto. Mi sono sempre fatta il mazzo senza mai dare la colpa al ministro se queste sono le mie condizioni di partenza. Non tutti partiamo avvantaggiati: se si vuole emergere bisogna sudare, lavorare, studiare. Ma bisogna innanzitutto capire in che cosa siamo bravi davvero, ed essere pronti a fare dei sacrifici per ottenerli. Certo, chi questi sacrifici non li vuole fare, chi vorrebbe tutto e subito, potrebbe essersi sentito offeso dalla Fornero. O da Martone che ci ricorda la quantità allucinante di studenti fuori corso da troppi anni. Io comunque un esamino di coscienza prima di offendermi me lo farei”.

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Cara Fornero ti scrivo

Cara Fornero ti scrivo
così mi distraggo un pò
e siccome sei molto lontana
più forte ti spiegherò.

Volevo fare il giornalista
ma mi son messo a disegnare brochure
mi è toccato anche il centralinista
e ogni giorno sognavo il Corriere.

Non tollero la pubblicità
il marketing mi fa rizzare i capelli
ma per fortuna ne ho pochi perciò
non ti stare a preoccupare per me.

E poi sono fortunato
pensa invece a chi fa il magazziniere
si spacca la schiena in un supermercato
ma gli hanno detto che è un ingegnere.

Scusa, Lucio.
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Non importa andare alle Cayman: ok una casa del popolo.Ti va?

Matteo Renzi, via Twitter, invita Pierluigi Bersani a un confronto pubblico su banche, finanza e trasparenza. La proposta del sindaco di Firenze arriva nel corso della polemica scatenata dal segretario Pd sulla cena che il suo sfidante ha tenuto a Milano con gli esponenti della finanza lombarda. Molti dei quali sosterranno economicamente la campagna elettorale del “rottamatore”.

“Io credo che qualcuno che ha base alle Cayman non dovrebbe permettersi di dare consigli”. Così Bersani, che ha affondato il colpo aggiungendo: “Banditi tra virgolette, certa finanza non è trasparente”. Da qui l’invito di Renzi, che prima aveva reagito ribattendo: “Se qualcuno incontra la finanza e le banche non è che le incontra perché ne è schiavo, anzi: se la finanza ha avuto un ruolo molto forte è perché la politica non è stata autorevole nel dettare i paletti e i limiti”.

Oltre alle questioni di trasparenza sollevate dal segretario Pd, la cena di mercoledì sera alla Fondazione Metropolitan rinfocola la discussione sulla collocazione politica di Matteo Renzi, accusato spesso di essere vicino, o di piacere, agli ambienti di centrodestra. Specie dopo aver invitato i delusi del Pdl a votare per lui alle elezioni politiche; nel caso, naturalmente, di una sua vittoria alle primarie.

L’accostamento tra quella cena e il non essere il sindaco di Firenze tradizionalmente di sinistra trova dall’altra parte della barricata posizioni che difendono Renzi puntando sulla forzatura e la superficialità di quell’equazione. E contrattaccano aggiungendo che, forse, sedersi attorno a un tavolo (a una tavola, in questo caso) col mondo della finanza è un elemento d’innovazione per il centrosinistra, che in passato può aver trovato un punto di debolezza proprio nel non confrontarsi a sufficienza con chi il potere economico lo gestisce. Ma, come piace preferibilmente a destra, lo fa anche troppo liberamente.

(Articolo pubblicato su TGParlamento e TGregione)

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Casini alle primarie!

“Io penso che in momenti di emergenza, progressisti e moderati debbano stare assieme”. Pierferdinando Casini, ospite l’8 ottobre scorso della trasmissione “Otto e Mezzo” di Lilli Gruber, ha ribadito così, ancora una volta, la sua convinzione circa un’alleanza con il Partito Democratico alle elezioni politiche della prossima primavera.

Fossi in lui, a questo punto anche io avanzerei la mia candidatura alle primarie del Pd. Perché l’Assemblea Nazionale del 6 ottobre le ha ratificate come “primarie  di coalizione”, nonostante una coalizione ancora non ci sia; come se il centrosinistra fosse scontatamente una realtà solida e strutturata. Mentre, al contrario, sulle eventuali alleanze regna una confusione totale, conseguenza anche della nebbia sulla legge elettorale con cui si voterà nel 2013. Allora tanto vale buttarsi e provare a dare ex ante una propria direzione agli eventi, come ha fatto Vendola.

Il Governatore della Puglia ha giocato d’anticipo, per provare a impostare una futura coalizione su premesse contrarie a quelle che hanno guidato l’azione parlamentare del Partito Democratico a sostegno del governo Monti. E a tale scopo utilizza il campo delle primarie, generosamente messo a disposizione da Bersani.

Perché non dovrebbe farlo anche Casini, per tener fede alla sua convinzione e improntare l’alleanza su basi e prospettive programmatiche più affini a quelle che lo vedono oggi concretamente alleato col Pd? Farebbe da contrappeso centrista, il quarto incomodo di una sfida in cui il terzo potrebbe poi avanzare pretese dai contenuti poco conciliabili con progressisti e moderati. Se “primarie di coalizione preventiva” devono essere, allora lasciare il campo a Vendola e attendere l’esito della contesa potrebbe poi risultare troppo tardi.

Fulcro di tutto ciò è il Partito Democratico, che potrebbe aver perso l’occasione per fare innanzitutto chiarezza al proprio interno, perché, ma non è una novità, non ha una linea comune sul delicatissimo futuro prossimo del Paese. Come gestire il dopo-Monti? Monti-bis, nelle varie sfaccettature possibili, o non Monti-bis? Che tipo di continuità dare a quanto finora realizzato dal governo tecnico, se una continuità la si vuole dare?

Primarie tutte interne al Pd, in un momento di potenziale svolta per la politica italiana, potevano essere lo strumento principe per restituire al partito un’identità propria, magari grazie a quell’auspicata capacità di remare tutti nella direzione stabilita col voto nei gazebo. Dopodiché, le eventuali alleanze con chi quella linea sarebbe stato disposto a condividerla.

Gli elettori, di sinistra e di destra, ma soprattutto gli indecisi e i rassegnati, hanno bisogno di percepire in maniera chiara che esiste una forza politica in grado di prendere in mano le redini del Paese con determinazione e piena consapevolezza su come guidarlo. Monti ha quantomeno fornito questa sicurezza, questo sollievo, agli italiani dopo anni di non-governo. Il Pd, ora che si trova a essere il primo partito, deve avere la capacità di assorbire su di sé la fiducia che i cittadini hanno avuto nel Presidente del Consiglio. E dare così seguito effettivo al gesto di responsabilità messo in campo alla caduta di Berlusconi.

Responsabilità e sicurezza che il Partito Democratico non deve soltanto all’Italia: mantenere la credibilità del Paese a livello internazionale è un elemento che abbiamo scoperto essere quanto mai necessario nel concreto e per il quale non serve una faccia austera o un comportamento sobrio, bensì programmi chiari e azioni reali. Fuori e dentro i nostri confini, molti vedono e temono un vuoto che si aprirà alla scadenza del mandato di Mario Monti. Il Pd ha l’occasione unica per restituire dignità alla politica italiana, dimostrando fin d’ora di possedere la solidità e l’autorevolezza necessari a impedire il dischiudersi di quel vuoto.

(Articolo pubblicato su qdR magazine)

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Ai cubani basteranno visto e passaporto. Forse.

Il Campidoglio de L’Avana

Raul Castro ha mantenuto la promessa: dal 14 gennaio prossimo, tutti i cubani potranno viaggiare oltre i confini dell’isola. Saranno loro sufficienti un passaporto e il visto, laddove richiesti dal Paese di destinazione. Questo provvedimento segue di un anno esatto quelli sulla possibilità di vendere e acquistare auto e immobili, con la differenza che appare molto più praticabile.

La liberalizzazione del mercato automobilistico era infatti piena di restrizioni, col parco macchine comunque controllato dal Governo e la transazione concessa solo a privati e residenti stranieri; oppure ai cubani, di fatto pochissimi, con un reddito in valuta estera o pesos convertibili (la moneta introdotta nel 2004 per il turismo e allineata col dollaro). L’apertura del mercato immobiliare è invece burocraticamente più effettiva, ma economicamente poco sostenibile per i cubani, che nella stragrande maggioranza dei casi si limitano a permute. E qui il parallelo col provvedimento annunciato oggi: bene la facilitazione delle pratiche, ma quanto costerà al cubano?

Questione non di poco conto, dal momento che gli stipendi sull’isola si aggirano mediamente tra gli otto e i venticinque pesos convertibili (Cuc), cioè tra circa gli otto e i venticinque dollari, dunque tra circa sei e venti euro. Se prima, tra fogli e permessi, si spendevano 150 Cuc, adesso i passaporti dovranno essere allineati agli stipendi; altrimenti anche questo si rivelerà un provvedimento più di facciata che di sostanza.

Consideriamo infatti il perché ai cubani non era permesso uscire dall’isola. Come in ogni buon regime che si rispetti, consentire ai cittadini di conoscere come si svolge la vita nei Paesi liberi è molto pericoloso. Ed è per questo motivo che, in teoria, nessun cubano che non lavori nel turismo può parlare con uno straniero. Pena per gli uomini qualche ora di galera, mentre per le donne, sottintese prostitute, cinque anni di carcere. Il discorso include anche il web, che non può entrare nelle abitazioni “private”; negli internet point e nei luoghi pubblici “internet free” viaggia a 56k (come da noi a fine Anni Novanta) e costa 8 Cuc l’ora: un’enormità anche per quei pochi fortunati che ne guadagnano 25 al mese.

Ora, da un regime organizzato in modo da limitare i contatti con l’esterno, ci si può aspettare una piena liberalizzazione della mobilità per i suoi cittadini? Laddove piena significa anche economicamente sostenibile? O questo forse sarebbe più credibile se rientrasse nel grembo di una più ampia riforma strutturale, capace di abbattere le limitazioni relazionali imposte ai cubani?

Anche perché nell’annuncio emanato oggi dal Governo castrista c’è un paragrafo che tra le righe odora forte di restrizione. Si dice, infatti, che per evitare le ingerenze degli Usa e dei suoi alleati, resteranno in vigore le misure atte a preservare il capitale umano creato dalla Rivoluzione, ovvero a evitare che i talenti professionali dell’isola vengano “rubati” dagli stranieri.

Cuba eccelle nei settori della medicina e dell’istruzione, tanto che numerosi studenti provenienti dall’America Latina, dall’Europa e dagli stessi Stati Uniti trascorrono dei periodi di formazione nelle università cubane, specie in quella di Santa Clara, cittadina nel pieno centro dell’isola. Il processo contrario è naturalmente vietato, ma soprattutto l’uscita di professionisti dai confini nazionali si scontra ancor più duramente della norma coi difficili permessi in vigore oggi (fatta eccezione per il Venezuela, che fornisce petrolio a Cuba in cambio di medici).

“Chiunque abbia una competenza specifica – mi diceva la scorsa estate una donna ingegnere – ha di fatto preclusa la possibilità di lasciare il Paese”. Stando a quel paragrafo sulla Granma, pare proprio che questo non cambierà. Bisognerà poi vedere cosa le autorità cubane vorranno intendere col termine generico “talentos”. Perché le parole sono importanti, ma la loro interpretazione, specie nei regimi, veste spesso e volentieri le caratteristiche dell’arbitrarietà.

(Articolo pubblicato su TGregione.it)

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Chi di ricchezza ferisce, di ricchezza perisce

Marchionne attacca Renzi

Foto unita.it

In un momento confuso e segnato da numerose divisioni nel panorama nazionale, Sergio Marchionne è intervenuto a portare quell’unità spesso auspicata dal Presidente Napolitano. Tutti, infatti, da destra a sinistra, da nord a sud, cattolici e laici, politici e anti-politici si sono compattati idealmente attorno a quella “piccola e povera città” di Firenze e al suo sindaco, Matteo Renzi.

Lui, “il rottamatore“, si era infatti dichiarato deluso e tradito dalla politica e dal comportamento dell’AD Fiat dopo il referendum nello stabilimento di Pomigliano D’Arco; e si è dunque attirato così le ire di un Marchionne che per la seconda volta in poche settimane ha dimostrato grande nervosismo. E poca lucidità, perché un’affermazione così svilente nei confronti di un gioiello riconosciuto del Paese, qualsiasi sia stato il contesto, è naturale si trasformi in un boomerang.

Poi si sa, noi italiani abbiamo tanta fantasia e non amiamo mollare la preda molto facilmente. Così, specie su web e social network, si è scatenata l’ironia contro di lui e a sostegno (come se ce ne fosse bisogno) di Firenze. Gruppi su Facebook e hashtag dedicati su Twitter, schizzati presto in cima alle tendenze tra i cinguettii. Ma soprattutto, è stato subito evidente come la penosa invettiva dell’AD andasse a tutto vantaggio di Matteo Renzi.

Il candidato alle primarie del Partito Democratico, oltre alla solidarietà dei suoi stessi avversari, ha avuto per sé tutta la luce buona che i riflettori mediatici garantiscono a chi viene colpito da sparate unanimemente condannate. E lui di quella luce ha bisogno oggi più che mai per compiere l’impresa in cui si è lanciato col suo camper. Tanto più che così ha potuto anche dimostrare di saper tener testa senza problemi a Marchionne sul piano dialettico, un campo in cui è sceso avanzando contenuti politici e ricevendo invece un attacco personale. Tutto grasso che cola ed è colato da sinistra, da destra, da illustri personaggi pubblici, da fiorentini, milanesi e napoletani.

Insomma, quello di Marchionne a Matteo Renzi è stato di fatto un endorsement di riflesso, inversamente proporzionale alle intenzioni che hanno spinto l’AD. E a poco è servita la retromarcia che ne è seguita, perché se davvero tutto ciò è nato nel contesto di un paragone tra Obama e Renzi e tra gli Usa e Firenze, i termini monetari utilizzati da Marchionne per definire il secondo hanno fatto certamente più clamore del primo. E hanno aiutato gli italiani a scoprire che invece è Firenze la più ricca tra i due, perché da sola ospita un decimo del patrimonio artistico mondiale. Chi di ricchezza ferisce, di ricchezza perisce.

(Articolo pubblicato su TGParlamento.it e TGregione.it)

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Emilia, tra le macerie del passato e l’incertezza del futuro

Dopo l’articolo d’inizio febbraio sulla shoah, Escursioni in campo aperto torna ad ospitare Roberto Bianco, amico e giornalista che ha passato il suo Ferragosto tra gli sfollati di un paesino dell’Emilia terremotata. Questo il suo resoconto, corredato d’immagini.

San Prospero, in Emilia, conta poco più di seimila anime, 2.800 famiglie, la comunità straniera al 12% e una strada principale che da Modena capoluogo attraversa il centro abitato. Attorno campi destinati all’agricoltura e un’area industriale che ha nella trasformazione alimentare, nella farmaceutica e nella cosmesi i suoi punti di forza. Nelle immediate vicinanze nomi noti alla cronaca nazionale: Cavezzo, Mirandola, Rovereto.

Solo sfiorato dal terremoto del 20 maggio scorso, il paese è stato investito dalle scosse notturne del 29 maggio. Ingenti i danni: delle 800 abitazioni del paese, metà sono pericolanti. Nell’immediato c’è chi si è arrangiato, chi ha potuto si è rifugiato altrove, mentre per 500 persone l’unica soluzione sono state le tende della Protezione Civile.

La vita di molti è andata travolta. Anche quella di Donatella Miotto, imprenditrice. La sua casa è salva ma il sisma interiore non le dà pace. “Per affrontare le mie paure – spiega – ho iniziato a girare in auto per distribuire scorte di cibo agli sfollati”. Oggi, a tre mesi di distanza, è uno dei punti di riferimento del campo di San Prospero.

Come il vicesindaco, Sauro Borghi. Bancario, all’indomani del terremoto ha rassegnato le dimissioni dal lavoro per dedicare anima e corpo ai concittadini. “Chi latita è lo Stato”, commenta. “Il motivo? Si vergogna a dire che non ci sono soldi. Se non interviene il Governo – avverte – le ripercussioni economiche saranno pesanti”.

Da tradizione, a Ferragosto, San Prospero è in festa. Ma quest’anno la sagra annuale diventa cena di autofinanziamento. Si pensa a trovare il denaro per le chiese danneggiate in paese – tre su quattro – e per le scuole: media, elementare e materna sono in parte o completamente inagibili e per centinaia di bambini sta per iniziare un anno scolastico precario.

Caligola, l’anticiclone di metà agosto, accompagna impietoso il convivio. Tra le tavolate l’argomento ricorrente è l’immediato avvenire. Entro settembre i campi d’accoglienza saranno smantellati; per chi è senza casa si provvederà con alloggi convenzionati, così promette la politica. Nel vociare sul futuro prossimo si mescolano le parole di sfollati, famiglie intere, forze dell’ordine, volontari, vigili del fuoco, giovanissimi scout, in una babele di accenti, dialetti, declinazioni. È l’Italia intera che si confronta, pone interrogativi, cerca e offre conforto.

Tra loro c’è anche l’operaio veneziano Mirco Guzzon, un veterano degli interventi a favore delle popolazioni terremotate. Per lui, prima dell’Emilia, l’Irpinia, il Kosovo, l’Aquila. “Ogni terremoto – sostiene – è una storia a sé. La macchina degli aiuti deve però adeguarsi al territorio attraverso una mediazione con la popolazione, non viceversa. L’Emilia ne è l’esempio. Qui molto si deve all’azione autonoma di semplici volontari venuti a dare una mano”.

Andrea Tartaglia, classe 1976, vicentino di Piovene Rocchette, padre di due bambine, è uno di loro. Riflette a voce alta: “E se succedesse a casa nostra – si chiede –, saremmo pronti ad affrontare un terremoto?”.

Difficile rispondere all’imponderabile. Intanto la solidarietà continua. Chi volesse contribuire a distanza può farlo con una donazione al Comune di San Prospero (Codice IBAN IT 72 L 05387 67000 000000485073 BIC BPMOIT22XXX – Causale: donazione per sisma 2012 / www.comune.sanprospero.mo.it). Il ricavato sarà utilizzato per il ripristino delle scuole.

DATI UFFICIALI REGIONE EMILIA – TERREMOTO 2012 (Aggiornamento Giunta Straordinaria del 14 agosto)

  • Danni complessivi per 11,5 miliardi di euro
  • 5,2 miliardi alle attività produttive
  • 3,2 miliardi al patrimonio abitativo
  • Oltre 2 miliardi ai beni storico-culturali e ai beni pubblici
  • 676 milioni per la fase dell’emergenza
  •  13.698 gli edifici dichiarati inagibili (35,4% del totale di quelli colpiti)
  • 10.622 parzialmente o temporaneamente inagibili (27,5%)
  • 13.963 edifici agibili (36,1%)
  • Ammortizzatori sociali per 37.500 i lavoratori di oltre 3.200 aziende
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El alma de la vida

Cuba è il sorriso splendido di chi vive senza pretese, col “bastante”.

Cuba è l’arte di arrangiarsi.

Cuba è una giovane donna che ti chiede di comprarle del latte per il suo bambino.

Cuba è una tipica spiaggia tropicale.

Cuba è una persona sconosciuta che gira l’angolo, t’incrocia e sorridendoti porge un “hola, mi amor”. Poi prosegue senza fermarsi.

Cuba è l’anima gonfia di musica.

Cuba è un bimbo scalzo e seminudo che ti chiede una foto e poi si gira, per nascondersi, con un sorriso timido e sdentato.

Cuba è l’assenza totale di pubblicità.

Cuba è un malinconico son che riempie da lontano una strada vuota.

Cuba è un dissetante e afrodisiaco guarapo.

Cuba è un giovane panettiere che lavora di notte per 8 Euro al mese; e di giorno vende “illegalmente” frutta fresca e canchanchara ai turisti sulle spiagge.

Cuba è un potentissimo temporale pomeridiano.

Cuba è lo scalpitio dei cavalli che trainano calesse e carrettini.

Cuba è la vegetazione da Jurassic Park.

Cuba è i campesinos che vivono un tempo passato da secoli, in completa autosufficienza.

Cuba è l’aria condizionata senza ritegno.

Cuba è attraversare la strada dove ti pare, perchè le strisce pedonali non ci sono.

Cuba è un sigaro sempre in bocca, anche spento.

Cuba è le casette basse e diroccate o i palazzoni sovietici mangiati dal tempo e dalla povertà.

Cuba è guardarsi sempre negli occhi.

Cuba è le macchine anglosassoni Anni Cinquanta.

Cuba è la barriera corallina.

Cuba è un uomo che ti accompagna in giro per la città, ma cammina venti metri avanti perchè con te, turista, non potrebbe stare.

Cuba è gli internet point a 56k.

Cuba è mangiare e bere in acqua, senza nemmeno il concetto di congestione.

Cuba è spontaneità.

Cuba è l’approssimazione del XX Secolo. Sì, del XX.

Cuba è amore.

Cuba è l’essenziale della vita, ciò che troppo spesso perdiamo di vista.

Presente e futuro corrono via veloci al cospetto del passato che resiste.

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Lorax, il guardiano della foresta

Anima e animazione ambientalista, Lorax è la storia di come abbiamo distrutto il pianeta attraverso il circolo perverso indutrializzazione – consumismo, miope e selvaggio in entrambe i fattori.

In primo piano lo sfruttamento sconsiderato delle risorse, con l’assoluta mancanza di preoccupazione per ciò che accadrà quando esse si esauriranno. Nessun riguardo verso il futuro, dunque, non solo quello del pianeta, ma nemmeno quello dei propri figli, decisamente più prossimo sia in termini temporali che personali.

Le filosofie del “che male c’è”, del “conta solo chi ha i soldi” o quella strafottente e irresponsabile del “too big to fail” hanno fatto da manifesto ideologico per la compromissione dell’ambiente e della salute pubblica.

L’urgenza pressante di cambiare sistema prima che ogni giorno diventi troppo tardi è complessa per una rappresentazione degna e scevra da ipocrisia e retorica. Ma tutto può iniziare da un gesto umile e apparentemente insignificante se collocato nel contesto planetario; d’esempio, invece, se sapientemente comunicato alla propria cerchia e alla propria comunità.

L’errore più grande dell’uomo è stato, ed è, quello di non aver considerato come suo preciso interesse lo svilupparsi in maniera armonica con la natura; adattandosi invece che sostituendosi ad essa. Perchè ad essa non ci si può sostituire: è dannoso per gli effetti sulla salute umana e catastrofico allorchè sarà la natura stessa a reclamare il maltolto.

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Grilleghismo

Ricordate vent’anni fa, era il 1992, quando la Lega Nord ottenne il suo primo successo elettorale? Ricordate il linguaggio, il “celodurismo”, i cappi, i gesti dell’ombrello, le dita medie al vento (che poi sono gli stessi atteggiamenti di oggi)? La Lega si è presentata con una campagna “anti-Sistema“, con l’intento di far saltare il banco, di mandare all’aria tutto. Si è sviluppata come un movimento dal basso, dei cittadini per i cittadini, contro i politici e la classe dirigente. Solo successivamente, nel 1996, il bersaglio è diventato l’unità nazionale.

Oggi, vent’anni dopo, mentre sta vivendo il suo periodo più difficile, minata alla base della sua trasparenza, del suo essere fuori dai giochini del Sistema, della sua presunta diversità da sempre sbandierata, in un certo senso si vede rinascere. O forse succedere, sostituire. Da un movimento del tutto simile nel linguaggio, nella dipendenza da un leader carismatico, nei gesti dell’ombrello, nel suo presentarsi come “anti-Sistema” e movimento dal basso. Con quello stesso intento di mandare all’aria tutto, di “prendere a calci nel culo” chi occupa i Palazzi e rifondarlo il Sistema.

Certo, sono diversi i contenuti. Biasimabili quelli della Lega, in buona parte condivisibili quelli del Movimento 5 Stelle, per i quali la fattibilità è l’aspetto che lascia gli interrogativi più evidenti. Oltre alle capacità di governo, attitudini che non s’imparano certo da un giorno all’altro e che implicano dinamiche ineludibili, benchè snobbate dai grillini. Come anche le alleanze. La Lega ha dovuto “mischiarsi” con destra e sinistra per inseguire i suoi obiettivi. Grillo dovrà fare lo stesso, perchè difficilmente raggiungerà numeri tali da incidere nel Sistema con la potenza che si è prefissato.

Vent’anni fa, era il 1992, l’Italia viveva un periodo di profonda crisi politica, economica e morale. Erano i giorni di Tangentopoli, delle manovre nottetempo per risanare il bilancio, il debito pubblico ed entrare nell’Euro, dell’eccessivo spread con la Germania. Del bisogno di unità nei sacrifici e dei cittadini arrabbiati con la classe dirigente, da cui si sentivano traditi, presi in giro, tartassati e lontani.

Oggi, vent’anni dopo e con le dovute differenze, sono tornati quei tempi. Tempi di crisi, in cui gli italiani si affidano, di regola, al carisma di un “homo novus”, al “salvatore della Patria”. Vent’anni fa fu Bossi al Nord con Berlusconi a livello nazionale. Oggi molti, pare sempre di più, vedono in Grillo l’unica speranza, l’unica vera alternativa. Vent’anni, come la durata delle serie storiche italiane.

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