Le previsioni danno nuvole nere

“Le previsioni danno nuvole nere, stormi di temporali in arrivo.

Io sono pronto ad ogni evenienza, ad ogni nuova partenza.

E non sappiamo dove stiamo andando”.

(Franco Battiato, “Splendide previsioni”)

Nulla di più riassuntivo in vista del 2012, non è il caso di aggiungere altro.  Solo voglio cogliere in quei versi una nota mista di orgoglio e ottimismo. Qualsiasi cosa ci aspetti di negativo il prossimo anno, saremo pronti ad affrontarlo e a trasformarlo in un nuovo inizio. Perchè al di là di tutte le ironie sui nostri mille difetti, siamo un Paese enormemente ricco. E non intendo in termini economici, parlo di risorse a livello umano.

Abbiamo un mantello di cultura, talento e creatività che sa assorbire le intemperie ed elaborarle; mica subito, ovvio, siamo noti per fare le cose con calma. Ma le facciamo e le facciamo da noi, alla faccia del Wall Street Journal e di quel vizietto che hanno all’estero: affossarci quando c’è da sparare sulla Croce Rossa e prendersi tutti i meriti quando sappiamo curarci le ferite. Non abbiamo bisogno di balie, abbiamo Giorgio Napolitano.

Sotto quel mantello c’è subito la carne viva, perchè mezze misure non ne conosciamo, “a cipolla” non ci sappiamo vestire. E’ una carne che si anestetizza facilmente, solitamente per un ventennio, ma altrettanto facilmente si risveglia. Si risveglia e si mette all’opera, che a guidarla sia una nuova Costituzione o un attempato professore dalla bacchetta rigida.

Poi lì, sotto sotto, c’è un cuore solido, abituato a faticare. Molto spesso ragioniamo solo con quello, come se un cervello non l’avessimo. Ma se è per questo che ci cacciamo nei guai è altrettanto per questo che ci tiriamo fuori. In fondo è un cuore giovane e ne ha viste già di tutti i colori. Ha dimostrato di non essere avvezzo agli infarti e ci sosterrà anche stavolta, nonostante la pressione alta dello spread.

Che non sappiamo dove stiamo andando è vero, anche se verrebbe più facile usare un’espressione colorita per definire la nostra destinazione. Ma lì non ci andremo; metteremo in tensione i muscoli, digrigneremo i denti, verseremo qualche lacrima e sputeremo il consueto sangue. Così i retorici del “Lacrime & Sangue” saranno contenti. Avremo il vento contrario, a giudicare dai numeri, ma dall’altra parte abbiamo iniziato a respirare aria nuova, pulita. Non può che farci bene ai polmoni, anche loro belli tosti. Contro quel vento ci sapremo correre.

Che il 2012 sia un nuovo inizio, perciò, una “nuova partenza”. E che ci porti lontano dalle nebbie in cui lo trascorreremo. Del resto, per usare un altro verso di Battiato, “le nuvole non possono annientare il Sole”. Per quanto nere siano.

Buon anno a tutti.

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Centotre anni fa moriva Messina

Il 28 dicembre 1908, alle 5.21 di notte, un terremoto del 12° grado della scala Mercalli (7.1 della Richter) si scatena nello Stretto di Messina. Le illuminazioni saltano, le vie di comunicazione sono inagibili. Sulla sponda siciliana i sopravvissuti scendono in strada dopo la scossa; si sentono ormai al sicuro, non sanno cosa nasconde quel buio assoluto. Tre onde di tsunami si abbattono su di loro e su quel che resta della città. Solo il 10% degli edifici rimane in piedi. Tra Messina e Reggio Calabria i morti sono 82 mila.

Un’idea tangibile della parola “catastrofe” me la sono fatta al cimitero monumentale di Messina. E’ semplicemente impressionante quante tombe portano il 28 dicembre 1908 sulla data di morte; e stringe lo stomaco quando quella data accomuna un’intera famiglia. La nonna di mio padre, circa 75 anni dopo, ricordava quei momenti con le lacrime lungo il viso. Le si incanalavano nelle rughe, che assumevano un significato più forte mentre parlava del terremoto.

Mi ha sempre destato tristezza e un lieve rimpianto, da folle innamorato di quella città, sentire dire agli anziani che Messina era un gioiello raro prima della tragedia; e che senza sarebbe stata non solo la porta, ma anche la gemma della Sicilia. Non per una questione estetica, ma per via delle persone: “Messina è bedda, sunnu i missinisi chi non mannu na lira”. Dicono così, sono i messinesi che non valgono niente. Ma perchè? Chiedevo. Una volta le teste erano vivaci – mi rispondevano – ma vivaci in senso buono; c’era “tuttu nu sfruculìu” di operosità creativa, collaborazionismo, dignità.

Oggi quella creatività è diventata “mors tua vita mea”, una necessità di sopravvivenza. Non sai da che lato guardarti prima – dicono coloritamente in dialetto. La gente è diffidente, per attitudine molto più che per necessità. E’ come se la città non si fosse mai ripresa dal terremoto; va avanti senza nulla in cui sperare, con le spalle chine e lanciando sguardi stanchi, vuoti. Un disastro di quel genere, in un tempo in cui non c’era nessuna delle tecnologie odierne per scavare, sgomberare e soprattutto ricostruire, evidentemente resta per sempre nel profondo di un popolo. “Ca non c’è nent’i fari”. Mio nonno me lo ripeteva con rassegnato cinismo e guardandomi come un illuso quando vaneggiavo di tornare a vivere là.

Per questo nella battaglia contro il Ponte ho letto un segnale splendido dei messinesi; uno scatto d’orgoglio a difesa non solo della loro terra, ma anche della loro dignità. Come se dicessero “fateci tutto, ma questo no”; significa che Messina, dentro di sè, una speranza ce l’ha eccome.

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Giorgio Bocca, da un estremo all’altro

Foto corriere.it

E’ morto il giorno di Natale, in piena coerenza col suo personaggio controverso. Celebrato da una parte come uomo di sinistra e grande partigiano, osteggiato dall’altra per lo stesso motivo. Ignorano volutamente, entrambe le parti, che Bocca fu anche fascista convinto, prima dell’8 settembre. Come se i pensieri di gioventù non contino, non facciano parte della vita intera, di quello che si è, o si resta, nell’età matura. A diciotto anni firmò l’appoggio al Manifesto della Razza, poi si iscrisse al Gruppo Fascista Universitario. Dopo l’armistizio voltò le spalle al regime e salì a combatterlo nelle valli cuneesi, dove fondò il gruppo partigiano Giustizia e Libertà. Così diventò icona di sinistra.

Un comportamento assimilabile lo tenne anche più avanti, quando elogiò il governo socialista di Bettino Craxi alle sue prime luci oppure alcune istanze della Lega nei primi Anni Novanta. In entrambe i casi, ne diventò poi uno dei più crudi e attenti oppositori, criticando in punta di fioretto e con rara efficacia d’approfondimento. Sempre splendidamente chiaro, sintetico, tagliente, anche quando definì così le Brigate Rosse: “a me queste Brigate rosse fanno un curioso effetto di favola per bambini scemi o insonnoliti e quando i magistrati, gli ufficiali dei carabinieri e i prefetti ricominciano a narrarla mi viene come un’ondata di tenerezza perché la favola è vecchia, sgangherata, puerile”. Forse la sua peggior caduta di stile, che usciva da quel suo essere estremo su qualsiasi posizione stazionasse, ma che egli stesso riconobbe scusandosene onestamente.

Mancare di coerenza, tuttavia, non sempre è atteggiamento negativo o vigliacco. Può anche essere sinonimo di enorme intelligenza nel riflettere sui propri credo fino a comprenderne gli errori, fino a combatterli senza pietà. Quelli di Giorgio Bocca possono esser stati comportamenti dettati da un istinto appassionato e curioso verso nuove forze prorompenti nel contesto socio-politico. Lui stesso disse di aver ceduto ad alcuni innamoramenti, anche se pure lui non considera quello per il fascismo. Li amava con frenesia, ma proprio per questo arrivava a conoscerli in profondità. Poi, che fossero brevi infatuazioni o passioni più durature, le abbandonava e le osteggiava, ma sapendo bene di cosa parlava.

Per questo la grandezza che vedo in lui sta nell’aver raccontato da testimone intimo e viscerale la storia del nostro Paese; in tutte le sue più colorate, e colorite, sfaccettature.

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Debito pubblico italiano: chi e quanto.

Come si è evoluto il debito pubblico italiano nel secondo dopoguerra? Chi vi ha contribuito di più? Chi è riuscito a contenerlo? In sostanza, come siamo arrivati a questo punto? Oscar Giannino lo ha illustrato in maniera dettagliata e oggettiva. Una lezione da conservare e dalla quale attingere quando si vuole affrontare l’argomento. Per capire poi anche come si è creato debito, occorrerà incrociare questi numeri con le politiche economiche dei diversi governi. Dopodichè, un giudizio potrà essere più propriamente tale.

Fonte: youtube.com/trarcomavaglio1

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La dittatura eterna

Foto blog.panorama.it

Quando ho visto i pianti di massa del popolo nordcoreano alla notizia della morte di Kim Jong-il, mi è subito tornata alla mente una discussione fatta con un amico circa un anno fa. Ipotizzando uno dei nostri viaggi “all-risk inclusive” finimmo a parlare della Corea del Nord, ultimo regime stalinista rimasto al mondo e unico Paese della Terra presieduto da un morto. Kim Il-sung, infatti, padre del regime voluto dai sovietici dopo la Seconda Guerra Mondiale, alla sua scomparsa venne nominato Presidente eterno.  Il giorno in cui morì – l’8 luglio 1994 – il mondo scoprì la tragicomica manifestazione del pianto collettivo nordcoreano.

E’ un retaggio culturale impiantato nella popolazione da generazioni di culto della personalità, infusa nei confronti del “Grande Leader” e perpetuatasi automaticamente anche per Kim Jong-il, suo primogenito e successore*. Fenomeno ai limiti dell’esibizionismo, il pianto di massa non è spinto da un obbligo nei confronti del regime, ma pare sia piuttosto mirato ad ingraziarsi la divinità rappresentata dal Leader, Grande o Caro che sia. Per i nordcoreani religione e obbedienza politica coincidono.

Quella sera, nelle nostre discussioni, venne fuori un altro particolare sulla questione, che può forse aiutare a definirne meglio la portata. E’ il racconto che il primo, e finora l’unico, giornalista italiano ufficialmente autorizzato ad entrare in Corea del Nord fece, nel 2005, sulla sua esperienza al mausoleo di Kim Il-sung, dove adesso riposa anche Kim Jong-il.

Particolari condotte gettano addosso aria, come fosse vento che deve rimuoverti la polvere di dosso; per entrare completamente lindi nella sala del Grande Leader, meccanismi automatici ti puliscono anche le scarpe. Accanto alla salma imbalsamata del dittatore, 24 ore su 24, sostano a turno donne che lo piangono. Per loro, quando all’indomani del funerale finiscono i riti collettivi, il piagnisteo continua più sommesso e privato, giorno e notte. Il Presidente eterno verrà eternamente pianto dalle donne nel suo mausoleo. Sicuramente lo stesso avverrà anche per il figlio.

Il giornalista di cui parlavamo, reporter di valore internazionale, si chiama Giovanni Porzio. La sua testimonianza dalla Corea del Nord è preziosissima se si vuole comprendere meglio ciò che ci lascia a bocca aperta. Non c’è la parte sul mausoleo, introvabile nel web, ma la si può leggere pressochè integralmente qui.

*Il quale però non ha ereditato la carica di Presidente.

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“Avremmo fatto”, una voce dall’Aldilà

La manovra di Monti avrà un peso sulle famiglie di 1.129 €, mentre quello della Tremonti/Berlusconi graverà per 2.031 €.

Bastano due numeri per smontare tutti gli “avremmo fatto” pronunciati dal Ministro del Tesoro uscente nella trasmissione “in 1/2 ora” di Lucia Annunziata. “Era scritto nei documenti che avremmo fatto una manovra, magari con strumenti diversi, con una meccanica diversa e probabilmente non così sbilanciata dal lato delle tasse, questo è oggettivo”. A giudicare dalla manovra precedente, parrebbe oggettivo il contrario. L’ex super-Ministro insiste molto sull’iniquità del “pacchetto Monti” a danno delle famiglie.        Il che può essere condivisibile, ma il pulpito da cui arriva la predica è piuttosto fuoriluogo.

“Il rigore poteva essere fatto soprattutto riducendo la spesa pubblica, come avevamo in programma noi, prosegue Tremonti.  Fermo restando che avere in programma è un concetto totalmente aleatorio, le critiche contro i provvedimenti anticrisi varati dal precedente Governo miravano proprio sull’eccessivo aumento delle entrate rispetto al taglio delle spese. E i numeri danno ragione alle critiche.

Fa quindi un pò specie che adesso, svestiti gli scomodi panni di ministro e vestiti quelli comodi del commentatore, Tremonti attacchi i suoi successori in un campo dove lui aveva fatto peggio.

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Il ragionamento sbagliato di Di Pietro

“Lei è nato Governo tecnico, ma è subito diventato Governo politico con i suoi compromessi. Per cercarsi una maggiornaza parlamentare che le permettesse di sopravvivere qui dentro ha rinunciato ai suoi stessi princìpi e a i suoi stessi obiettivi”.

Antonio Di Pietro – Discorso alla Camera 16/12/2011

Mario Monti è sceso a compromessi, su questo non ci piove. Lo ha fatto molto con il PdL, poco o niente con PD e Terzo Polo. Il partito del suo predecessore, forte dei numeri soprattutto al Senato, ha posto dei diktat chiari, fin dalle prime consultazioni: “o noi o la patrimoniale”, tanto per cominciare. E poi, più sottobanco, c’è da immaginare almeno il via libera al “beauty contest”.

Ma cosa avrebbe dovuto fare Monti secondo Di Pietro? Non curarsi dei temi forti per il partito di maggioranza uscente, che coi suoi numeri, uniti a quelli della Lega, lo avrebbe fatto cadere in tempi record? Il PdL su patrimoniale e frequenze non avrebbe mollato nè ora e nè mai, se ne sarebbe fregato degli appelli alla responsabilità di Napolitano e avrebbe fatto mancare il suo appoggio.

Il Cavaliere e i suoi sono responsabili nella misura in cui non vengono toccate priorità su cui non sono disposti a scendere a compromessi. E purtroppo hanno i numeri dalla parte del manico. “Ti lascio governare, ma tu non mi fai la patrimoniale e altre due o tre cosette”: vista l’urgenza di dover dare una risposta la più rapida possibile alla Comunità Europea, prima ancora che ai mercati, il Governo ha dovuto accettare il ricatto.

Berlusconi e Alfano continueranno a sostenere Monti finchè ne avranno convenienza, soprattutto in termini elettorali. Se e quando verrà il momento in cui i sondaggi volteranno le spalle al Premier, c’è da scommettere che lo farà anche il PdL.

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L’equità nella Riforma Fornero

Foto secoloditalia.it

L’aspetto della riforma previdenziale che ha destato le reazioni negative più forti, prima ancora dell’innalzameno così netto e repentino dei requisiti per il pensionamento, è stato il tetto per l’adeguamento al costo della vita, fissato al doppio della pensione minima Inps, ovvero poco sotto i mille Euro. I sindacati hanno fatto fronte comune e sciopereranno insieme (non succedeva dal 2008, Governo Berlusconi), i partiti, in maniera trasversale, l’hanno criticato con più o meno forza, a seconda dell’intensità dell’appoggio a Monti.

Nel merito, in nome dell’equità, è quantomeno auspicabile che tale soglia venga innalzata, coprendola con l’aumento contestuale della tassazione sui capitali scudati o intervenendo su altre misure poco soddisfacenti in termini di uguaglianza sociale. Ma oltrepassando questo aspetto, è utile analizzare il resto della riforma usando sempre il filtro dell’equità.

LA PROSPETTIVA PENSIONISTICA

In via preliminare, bisogna considerare che il provvedimento, concepito alla luce dei giorni nostri, è ineludibilmente figlio delle dinamiche del mondo del lavoro contemporaneo. Dunque, va a salvaguardare in primis i giovani lavoratori in nero che non vedono versati i propri contributi fino a un’età “avanzata”. Dalle numerose tabelle elaborate dopo il varo della riforma, appare evidente che chi inizierà a lavorare, o meglio, a versare contributi, a 35 anni, andrà in pensione lo stesso anno di chi avrà cominciato a 24.

In questo modo la pensione è garantita anche a chi, emergendo tardi nel sistema previdenziale, prima vedeva l’addio al lavoro come un’inarrivabile chimera. Quindi, equità di trattamento all’interno di una stessa generazione.

Guardando a quelle precedenti, esse la pensione l’avevano ormai assicurata, forti di un’età contributiva ormai inoltrata anche grazie a un mercato del lavoro che, ai loro tempi, non aveva quei requisiti di estrema flessibilità che oggi hanno condotto a un divario generazionale notevole in termini di prospettiva pensionistica. La Riforma del Ministro Fornero si rivolge indistintamente a tutte le fasce d’età, ristabilendo così equità tra le generazioni precedenti, quelle attuali e quelle future. Anche se, come già trattato nel precedente post, il prezzo di questo riassetto lo paga chi era ormai prossimo alla pensione e ora se la vede bruscamente spostata in avanti.

Se equità vuol dire equilibrio tra le parti, del resto, per crearla laddove non c’è, è necessario che chi ha di più ceda qualcosa a chi è più svantaggiato, con tutti i traumi che una riorganizzazione si porta dietro. In buona sintesi, sotto il profilo della prospettiva temporale la Riforma crea e ristabilisce equità tra e nelle generazioni.

DAL RETRIBUTIVO AL CONTRIBUTIVO

L’altro elemento forte introdotto dal provvedimento è il sistema contributivo per tutti. Anche chi finora era trattato col retributivo, ovvero chi aveva almeno 18 anni di contributi maturati al 31 dicembre ’95, passa al nuovo regime per gli anni che gli mancano alla pensione (ora aumentati). Dunque, dal momento che il retributivo è senza dubbio più vantaggioso, si ripropone banalmente l’equità inter-generazionale.

Il sistema contributivo assomiglia un pò agli slogan pubblicitari delle tv on demand, “paghi quello che vedi”. In questo caso, prendi quello che hai dato: più contributi versi più alta sarà la pensione, e viceversa. E’ un regime meno remunerativo ma sicuramente più equo rispetto all’altro; e qui sta la “finezza” della Riforma, che permette allo Stato di risparmiare molto denaro introducendo, allo stesso tempo, parità di trattamento previdenziale.

Resta naturalmente aperto un aspetto critico, legato ai precari e ai lavoratori in nero. I primi hanno una vita contributiva incerta e discontinua, i secondi non versano contributi. Come potranno godere di una pensione sufficiente quando saranno anziani? Sempre alla Fornero, stavolta attraverso la Riforma del lavoro, spetta il compito di trovare una soluzione; possibilmente equa e con un bel sorriso.

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I Ragazzi del ’52

Illustrazione idearun.it

Tre settimane circa e avrebbero potuto fare la domanda di pensionamento. Dopodichè, nei mesi successivi, chi a giugno, chi a settembre, chi a fine anno, si sarebbero ritirati dalla vita lavorativa. Era questa la felice prospettiva che attendeva i nati nel 1952 con 36 anni di contributi maturati. Quelli, cioè, che avrebbero centrato nel 2012 la fatidica “quota 96”, necessaria per poter accedere alla pensione.

Avrebbero. Perchè ieri il neo-Ministro Fornero ha annunciato che tra 26 giorni si cambia: andranno in pensione a 66 anni e 42 di contributi. E’ come se un maratoneta, a 300 metri dall’arrivo, fosse brutalmente preso, caricato su una macchina e riportato al km n° 44. La sua maratona diventerà di 56 chilometri invece dei canonici 50.

La stessa cosa vale per la Classe ’52, i sessantenni del 2012: a pochi mesi dalla pensione, lavoreranno per altri sei anni. E “sei anni, alla nostra età, sono davvero tanti” – ha commentato mio padre, uno della leva e coi 36 di contributi nel 2012. Da un giorno all’altro la prospettiva della loro vita cambia drasticamente.

Ogni riforma crea degli “scalini” tra la situazione precedente e quella successiva all’entrata in vigore. Questi scalini sono più o meno alti, a seconda delle modalità dell’entrata in vigore stessa. Da questo punto di vista, la riforma del Ministro Fornero, più che uno scalino, costruisce un vero e proprio muro, contro cui gli ormai prossimi sessantenni vanno a sbattere con brutale violenza.

Pagano l’urgenza di una manovra, varata con Decreto unico, che deve portare l’Italia al pareggio di bilancio nel 2013. Pena il fallimento del Paese, dell’Euro e dell’Unione Europea tutta.

Ricorda un pò, con le debite e logiche differenze, quello che successe durante la Prima Guerra Mondiale. Al posto della Classe ’52 c’erano i Ragazzi del ’99, freschi diciottenni. Vennero arruolati in fretta e furia per risolvere un’altra crisi, quella in cui era caduto il Regio Esercito dopo la disfatta di Caporetto. Ce la fecero: rinsaldarono le fila sul Piave e guidarono la riscossa dell’Italia.

Oggi hanno affidato ai nostri papà il compito di tirarci fuori dalla Caporetto economica, finanziaria e politica che stiamo attraversando. Ma il loro sforzo non poteva essere alleviato? Un pò più commisurato? Non c’erano altri modi per far rientrare in tempo i conti dello Stato? Non c’erano altre categorie che potevano sobbarcarsi parte di questo fardello?

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Berlusconi, a riprovarci rischi il suicidio.

Foto Ansa

Il tripudio di piazza che ha accompagnato le dimissioni di Berlusconi, definito “scalmanato” e “incivile” da chi ne è stato sentimentalmente toccato, era inevitabile e ampiamente prevedibile. Chi la auspicava fortemente da anni non poteva non scendere in strada a festeggiare la fine di un’epoca, “la liberazione”. Nonostante la grave situazione del Paese e tanto più perchè gli eventi si sono succeduti in maniera così insperata e repentina. Il berlusconismo, con le forti contrapposizioni che ha generato, ha portato alle estreme conseguenze i sentimenti destati nella gente dal Cavaliere. Perciò, solo chi non ha vissuto la società reale poteva non aspettarsi la festa che si è scatenata il 12 novembre.

Ma è stata davvero la fine di un’epoca? Silvio Berlusconi è davvero finito? Il dibattito si è aperto subito dopo la sua salita al Colle tra fischi e insulti, ma adesso, a distanza di una settimana, si può fare qualche considerazione più solida.

Il giubilo conseguente alla sua caduta lo ha sicuramente ferito, ma ne ha anche risvegliato quella “cattiveria agonistica” propria dell’inguaribile combattente che è. Così come il fatto di aver abdicato senza la sfiducia del Parlamento gli ha acceso quell’orgoglio di chi vuole riprovarci. Vede il Governo Monti come una provvidenziale parentesi durante la quale ha tutto il tempo di lavorare alla campagna elettorale e dalla quale attingere argomenti, prevedibilmente populistici, da utilizzare nella campagna elettorale stessa.

“Tornerò a fare l’imprenditore – ha dichiarato – ma l’imprenditore del partito, di un’azienda che deve riconquistare la fetta di mercato persa. Da qualche tempo non conferma una sua non ricandidatura e si dice voglia cambiare il nome al PdL. Rifondare il partito e rilanciarsi, insomma. Dare seguito alla discesa in campo del ’94 e alla salita sul predellino del 2007. Non c’è due senza tre.

Stavolta, però, non è detto che i suoi lo lascino fare. Una grossa fetta del PdL non è più disposta ad accettare un partito monopolizzato dal Cavaliere, con una dialettica nulla e una leadership indiscutibile. Lo stesso Alfano, che tornerebbe in aspettativa dopo la supplenza al vertice di Via dell’Umiltà, potrebbe vedere il suo futuro di leader politico compromesso dal ritorno di Berlusconi. Esponenti di spicco come Frattini e Scajola hanno mostrato di non trovarsi più a loro agio con i cosiddetti “falchi”. Anche per loro, forse, il 12 novembre è stata la fine di un qualcosa che non ha più senso rilanciare. Anche loro, forse, sentono aria di inevitabile cambiamento. Anche per loro, forse, è finita un’epoca. Il tentativo del Cavaliere di ripartire come ai vecchi tempi potrebbe scagliargli addosso il suo stesso partito.

La situazione del PdL a livello dirigenziale, peraltro, sembra rispecchiare quella della sua base. Al di là dei fedelissimi “senza se e senza ma”, veri e propri fan, in ampi settori dell’elettorato berlusconiano non si avverte più quell’attaccamento incondizionato al Cavaliere. Si riconosce certo la mancanza di un’alternativa, a cominciare dalla leadership del partito, ma si ravvisa anche qualche lacuna nell’azione di governo, specie in quella dal 2008 in avanti. Per non parlare delle vicende personali dell’ex-premier, che, seppur considerate semplicemente tali, hanno infuso qualche sensazione di stanchezza e imbarazzo nelle fasce più centriste e meno polarizzate del popolo azzurro.

Lo stesso Berlusconi, del resto, ha ammesso di aver perso “fette di mercato”. Il modo in cui sembra volerle riguadagnare, appunto alla vecchia maniera, potrebbe rivelarsi ormai superato. Tanto più se Mario Monti riuscirà nell’intento di riconciliare forze e clima politico del Paese. Il largo consenso che tutti i sondaggi attribuiscono al nuovo Premier lasciano pensare che sia il Paese stesso a sentire il bisogno di una riconciliazione, di un ritorno alla normale dialettica, oltre che di una ristrutturazione istituzionale, economica e politica.

In ultimo, ma probabilmente è l’aspetto più importante per Berlusconi, potrebbero essere anche i suoi figli a non appoggiarne più l’impegno politico. “Questo governo Monti per noi di Mediaset potrebbe rappresentare una boccata d’ossigeno” – ha dichiarato Piersilvio al Corriere della Sera. E ha aggiunto: “forse adesso si capirà quanto ci danneggia il clima di ostilità attorno alla nostra azienda. [...] Per motivi ideologici o di bottega, c’è chi ha sempre avuto interesse a confondere Mediaset col governo e viceversa”.

Leggerne tra le righe un auspicio che sia terminata, o che termini, l’azione politica del padre è fin troppo facile. Peraltro, non è neanche troppo difficile notare l’indiretta e probabilmente inconsapevole ammissione dell’esistenza, e della consistenza, del celebre conflitto d’interessi del Cavaliere. Nei figli prevarrà questo tipo di consapevolezza o preferiranno che continui a dedicarsi alla politica per non avere la sua ingombrante presenza nelle aziende?

Questa, insieme e forse ancor più delle altre, potrebbe essere la partita che deciderà il destino di Silvio Berlusconi e dell’Italia intera.

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